Come definito all’interno delle guide dell’Istituto Superiore di Sanità le infezioni nosocomiali sono una delle complicazioni più frequenti e gravi dell’assistenza sanitaria.

Vengono definite così le infezioni che si presentano durante o dopo il ricovero di una persona in ospedale e che non erano presenti o in incubazione al momento dell’ingresso in ospedale.

Le cause di un’infezione ospedaliera sono molteplici:

interventi chirurgici;

utilizzo prolungato di dispositivi medici invasivi;

indebolimento del sistema di difesa dell’organismo (immunosoppressione) e presenza di gravi malattie di base;

eccessivo utilizzo di antibiotici;

scarsa applicazione di misure di igiene ambientale;

scarsa prevenzione e controllo delle infezioni.

 

I principali fattori di rischio sono ovviamente legati alla durata delle degenza ospedaliera, oltre che alla presenza di altre malattie che abbassano le difese immunitarie (tumori, immunodeficienze, diabete, anemie, cardiopatie, insufficienza renale e trapianti d’organo) e esposizione a particolari tecniche assistenziali invasive e/o complesse (cateterismo, endoscopie, interventi chirurgici).

 

Sempre l’Istituto Superiore di Sanità fornisce dei dati allarmanti.

Il Ministero della Salute stima infatti che in Italia ogni anno dalle 450.000 alle 700.000 persone ricoverate vanno incontro a un’infezione ospedaliera.

Di queste, sempre secondo le stime, più del 50% potrebbero essere prevenute.

Le infezioni più frequenti sono quelle respiratorie, soprattutto polmoniti, seguite dalle infezioni urinarie, chirurgiche e del sangue.

In Europa, le Infezioni correlate all’assistenza (ICA) provocano ogni anno:

  • 16 milioni di giornate aggiuntive di degenza
  • 37.000 decessi attribuibili
  • 110.000 decessi per i quali l’infezione rappresenta una concausa.

I costi vengono stimati in approssimativamente 7 miliardi di Euro, includendo solo i costi diretti.

Risarcimento danni per infezioni ospedaliere: in che cosa consiste una infezione ospedaliera

Prima di comprendere come è possibile richiedere ed ottenere un risarcimento danni per infezioni ospedaliere (le quali rientrano nella categoria della malasanità), è fondamentale comprendere che cosa è una infezione ospedaliera. Per definire una infezione ospedaliera, si può dire che è una infezione assente all’ingresso del paziente nell’ambiente di ricovero o di assistenza, che non deve essere obbligatoriamente e strettamente ospedaliero, e i cui sintomi iniziano a manifestarsi a partire dal terzo giorno in poi. Riferendoci ad un ambiente non strettamente ospedaliero, intendiamo dire che i possibili luoghi e le possibili fonti in e da cui è possibile che si verifichi una infezione ospedaliera sono i seguenti:

  • le strutture sanitarie in generale;
  • flussi d’acqua o i sistemi di ventilazione;
  • l’igiene della persona;
  • la pulizia dell’ambiente;
  • l’utilizzo scorretto di antibiotici.

Inoltre, va anche detto che il rischio di contrarre una infezione ospedaliera non fa capo solo ai pazienti, ma anche al personale medico e sanitario, agli assistenti, ai visitatori e a eventuali tirocinanti. In questo senso, è determinante individuare quelli che sono i principali fattori di rischio, che sono i seguenti:

  • l’età, per cui principalmente vengono colpiti i neonati o gli anziani;
  • la malnutrizione;
  • eventuali traumi;
  • la presenza di altre infezioni più o meno gravi.

 

Gli errori medici che possono implicare la responsabilità medica sono molteplici e possono variare in base alle circostanze specifiche di ciascun caso. Tuttavia, alcuni degli errori più comuni che possono portare a una potenziale responsabilità medica includono:

  • diagnosi errate o tardive
  • errori nella somministrazione di farmaci
  • negligenza nell’assistenza sanitaria
  • chirurgie errate o eseguite in modo improprio
  • mancata informazione al paziente sui rischi e sulle alternative di trattamento
  • mancanza di consenso informato
  • utilizzo di strumenti o attrezzature difettose o mal funzionanti
  • infettivologi ospedalieri

Lo status di vittima del dovere è imprescrittibile, ai sensi dell’art. 2934 c.c., in relazione agli artt. 2 e 38 Cost. Infatti, Cassazione, Sezione Lavoro, 17440/2022, ha sancito l’imprescrittibilità del diritto allo status di vittima del dovere.

Da ultimo, l’ordinanza n.3868 del 2023 ha espressamente affermato:

la condizione di vittima del dovere, tipizzata dall’art. 1, commi 563 e 564, della 1. n. 266 del 2005, ha natura di status, cui consegue l’imprescrittibilità dell’azione volta al suo accertamento, ma non dei benefici economici che in tale status trovano il loro presupposto, quali i ratei delle prestazioni assistenziali previste dalla legge» (Cass. n. 17440 del 2022).

 

Nel contenzioso promosso dalle vittime del dovere per la declaratoria dello status di vittima del dovere e per conseguire le provvidenze economiche per legge previste, le Amministrazione interessate avanzano sempre l’eccezione di prescrizione del diritto azionato, rilevando che è spirato il termine decennale di cui all’art. 2946 c.c., in combinato disposto con gli artt. 2934 e 2935 c.c., con riferimento alla data di entrata in vigore L. n. 302/1990, della L. n. 388/2000 e della L. n. 266/2005, in quanto  la parte ricorrente non ha prodotto alcun valido atto interruttivo.

Il giudice della nomofilachia ha riconosciuto che l’azione volta all’accertamento del diritto al riconoscimento dello status della condizione di “vittima del dovere” deve essere considerato imprescrittibile: «non può essere dubbio che le provvidenze in esame rientrino nell’ambito della tutela di cui all’art. 38 Cost.: la disposizione costituzionale ult. cit., nel riferirsi all’idea di “sicurezza sociale” e nell’ipotizzare soltanto due modelli tipici della medesima, uno dei quali fondato unicamente sul principio di solidarietà (primo comma) e l’altro suscettibile di essere realizzato mediante strumenti mutualistico-assicurativi (secondo comma), “non esclude tuttavia, e tantomeno impedisce, che il legislatore ordinario delinei figure speciali nel pieno rispetto dei principi costituzionalmente accolti” (così, testualmente, Corte Cost. n. 31 del 1986).

E se è vero che la disciplina delle provvidenze dettate per le vittime del dovere può legittimamente considerarsi come una delle possibili “figure speciali di sicurezza sociale”, la cui ratio va individuata nell’apprestare peculiari ed ulteriori forme di assistenza per coloro che siano rimasti vittima dell’adempimento di un dovere svolto nell’interesse della collettività, che li abbia esposti ad uno speciale pericolo e all’assunzione di rischi qualificati rispetto a quelli in cui può incorrere la restante platea dei dipendenti pubblici o degli incaricati di un pubblico servizio (così Cass. 29204 del 2021), non si possono non ravvisare nella situazione giuridica istituita dal legislatore tutti i presupposti dello status, nello specifico senso di cui dianzi sì è detto: valendo la categoria di “vittima del dovere” a differenziare una particolare categoria di soggetti al fine di apprestare loro un insieme di benefici previsti dalla legge e riepilogati dall’art. 4 d.P.R. n. 243/2006. L’imprescrittibilità della pretesa discende ex sé dalla riconosciuta natura di status della condizione di vittima del dovere e non già da una inesistente facoltà dell’amministrazione di attribuirla d’ufficio.

Tale principio, come detto, è stato confermato dalla giurisprudenza della Corte di legittimità laddove ha precisato che «la questione concernente la possibilità di intendere la qualifica di vittima del dovere in termini di status è stata di recente affrontata da questa Corte, con la pronuncia n. 17440 del 2022, affermativa del principio per cui “la condizione di vittima del dovere, tipizzata dalla L. n. 266 del 2005, art. 1 commi 563 e 564, ha natura di status, cui consegue l’imprescrittibilità dell’azione volta al suo accertamento, ma non dei benefici economici che in tale status trovano il loro presupposto, quali i ratei delle prestazioni assistenziali previste dalla legge.

Ordinanza n. 3868-2023

Si tratta di un argomento più volte studiato, con risultati, tuttavia, non conclusivi, in quanto l’evidenza del ruolo cancerogeno dell’amianto in tali patologie è tuttora piuttosto limitata.

Attualmente, per quanto riguarda il rapporto tra “Tumore del colon retto” e amianto, risulta che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in occasione di un ultimo aggiornamento dell’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti dell’articolo 139 del Testo Unico (approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124), ha inserito la suddetta patologia oncologica nella “Lista II” (Gruppo 6 Voce 3), quella delle malattie la cui origine lavorativa è di limitata probabilità.

 Pertanto, sulla base delle conoscenze attualmente disponibili, non è possibile stabilire con certezza un’associazione causale tra l’esposizione all’amianto e cancro del colon-retto.

La monografia 100/C della IARC  (Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro), il più importante organismo internazionale nel campo dei tumori, a conclusione di una sessione dedicata alle patologie amianto correlate, tenutasi circa 8 anni fa tra il 17 – 24 marzo 2009 ha concluso affermando che l’attività cancerogena delle fibre di amianto doveva essere classificata come 2A raggruppamento indicativo di un criterio di probabilità.

È comunque rilevante notare quanto nelle conclusioni afferma il Gruppo di Esperti della IARC relativamente al cancro del colon/retto.

Associazioni positive sono state anche riscontrate tra la esposizione a tutte le forme di asbesto ed il cancro della faringe, stomaco, e con/retto. Per il cancro del colon/retto, il Gruppo di Lavoro era (evenly divided) uniformemente diviso nel giudizio se la evidenza fosse così forte da attribuire la classificazione come sufficiente.

Quindi già nel 2009 la evidenza di un’azione cancerogena certa era prospettata dalla metà dei membri del Grippo di Lavoro, ma non raggiunse la maggioranza dei partecipanti, per cui l’amianto venne classificato come cancerogeno 2A per il cancro del Colon/Retto.

Quanto all’ultimo aggiornamento dell’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti dell’articolo 139 del Testo Unico (approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124), esso non potuto tenere conto dell’aggiornamento della valutazione della IARC (che ha ritenuto probabile l’attività cancerogena delle fibre di amianto), dal momento che i dati della IARC sono stati resi pubblici solo nel 2012 con la pubblicazione della Monografia 100/C.

Pertanto tale Decreto Ministeriale appare fortemente datato, in quanto ha inserito la suddetta patologia oncologica nella “Lista III” (Gruppo 6 Voce 3), quella delle malattie la cui origine lavorativa è possibile.

Appare invece di tutto rilievo fare riferimento a quanto recentemente nella letteratura internazionale è stato prodotto in tema di cancerogenesi da amianto per i tumori del colon.

Segnaliamo quindi il lavoro decisivo pubblicato nel 2016 da un gruppo di ricercatori francesi che si segnala per la sua ampiezza (la coorte esaminata consta di ben 14.515 lavoratori ex esposti ad amianto) e per la sua attenzione mirata esclusivamente ai tumori del colon, separando quindi la precedente classificazione che riuniva in un sol gruppo i tumori del colon e del retto.

Il lavoro su menzionato nasce esplicitamente dalla necessità posta dagli Autori di approfondire le controverse conclusioni del Gruppo di Lavoro della IARC e forniscono elementi rilevanti basati esplicitamente sulla valutazione differenziata della cancerogenesi da esposizione a fibre di amianto nei riguardi separatamente del colon e del retto.

Separando per la prima volta questi due distretti dell’organismo, i ricercatori hanno stabilito che mentre per il colon il nesso di causalità appare certo, tale rilievo non appare confermato per il cancro del retto.

Un lavoratore aveva prestato attività lavorativa alle dipendenze della S.p.A. ENEL con contribuzione versata al Fondo Elettrici per 32 anni e, successivamente aveva svolto l’attività di bracciante agricolo con contribuzione versata al FPLD per anni 11 anni.

Sussistendo i requisiti anagrafici e contributivi, presentava all’INPS domanda di conseguimento di pensione di vecchiaia in cumulo, evidenziando la richiesta di pensione in cumulo era finalizzata a utilizzare periodi contributivi non coincidenti maturati in più gestioni al fine del conseguimento di un’unica pensione di vecchiaia.

A seguito della reiezione da parte dell’INPS, proponeva azione giudiziaria.

Nella fattispecie rilevava che l’articolo 1, co. 195 della legge 232/2016 (legge di bilancio per il 2017) aveva rivisto in senso estensivo a partire dal 1° gennaio 2017 il perimetro di applicazione del cumulo dei periodi assicurativi già introdotto dall’articolo, 1, comma 239 della legge 228/2012 dal 1° gennaio 2013.

Il cumulo è un meccanismo particolare, in aggiunta alla ricongiunzione e alla totalizzazione, per valorizzare la contribuzione mista, ovvero quella contribuzione accreditata in più casse della previdenza obbligatoria frutto di carriere lavorative discontinue. La norma citata consente al lavoratore la possibilità di cumulare i periodi assicurativi accreditati presso differenti gestioni, senza oneri a suo carico, per il riconoscimento di un’unica pensione da liquidarsi secondo le regole di calcolo previste da ciascun fondo e sulla base delle rispettive retribuzioni di riferimento.

Dunque, a differenza della ricongiunzione, il cumulo non opera alcun trasferimento della contribuzione da una gestione previdenziale all’altra.

Pertanto, secondo la normativa richiamata, dal 1° gennaio 2017 il cumulo contributivo è esercitabile dai lavoratori iscritti a due o più forme di assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti dei lavoratori dipendenti, autonomi (commercianti, artigiani, coltivatori diretti e mezzadri) e dagli iscritti alle forme sostitutive ed esclusive della medesima (ex Inpdap, ex Enpals, Fondo Volo, Fondo ElettriciFondo Telefonici eccetera) .

Al pari della totalizzazione nazionale, il cumulo deve interessare tutti e per intero i periodi contributivi non coincidenti accreditati presso le diverse gestioni assicurative menzionate; inoltre è necessario che gli assicurati non risultino già titolari di un trattamento pensionistico diretto in una delle gestioni interessate dal cumulo stesso.

Dal 1° gennaio 2017, per effetto delle modifiche apportate dalla legge di bilancio 2017 il cumulo è ammesso anche qualora gli interessati abbiano perfezionato i requisiti per il diritto a un trattamento pensionistico autonomo in una delle casse coinvolte nel cumulo (cfr: Circolare Inps 60/2017).

L’importo della pensione è determinato dalla somma dei pro-quota, tante quante saranno le gestioni interessate: ciascuna determinerà il trattamento in rapporto ai rispettivi periodi di iscrizione maturati, secondo le regole di calcolo previste da ciascun ordinamento e sulla base delle rispettive retribuzioni. Ciò significa che, a differenza della totalizzazione, la pensione verrà liquidata con il sistema retributivo ove applicabile, fermo restando, in ogni caso, che, per i periodi successivi al 1° gennaio 2012, dovrà essere utilizzato solo il sistema contributivo.

Pertanto, diversamente da quanto operato dall’INPS, l’operazione di calcolo del trattamento pensionistico si atteggerà diversamente a seconda della prestazione richiesta. Nel caso del lavoratore in questione, siccome il cumulo era  finalizzato alla pensione di vecchiaia, l’operazione si configura a formazione progressiva, per cui, ai fini del diritto alla pensione di vecchiaia in cumulo, si potranno utilizzare tutti i periodi assicurativi accreditati presso le gestioni coinvolte nel cumulo. Ai fini della misura, la liquidazione del trattamento pro quota in rapporto ai rispettivi periodi di iscrizione maturati, secondo le regole di calcolo previste da ciascun ordinamento e sulla base delle rispettive retribuzioni di riferimento, avverrà solo al conseguimento dei rispettivi requisiti anagrafici e contributivi.

Con la sentenza che si allega, il Tribunale di Napoli Nord accoglieva il ricorso.SENTENZA CUMULO DEI PERIODI ASSICURATIVI

Corte Suprema di Cassazione – Sezione Lavoro – Sentenza n. 23041 del 22 agosto 2024

 

La Corte di Cassazione – nel chiarire da tempo che il divieto di cumulo dei trattamenti di disoccupazione con i trattamenti pensionistici a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, introdotto dall’art. 6 comma 7 del citato d.l. n. 148 del 1993, si estende anche all’assegno ordinario di invalidità, in ragione della sua natura di trattamento pensionistico (cfr. Cass. 17/08/2023 n. 24751 e ivi le richiamate Cass. nn. 5544 e 8239 del 2010, 9808 del 2012 e 8634 del 2014) – ha rammentato che il regime della non cumulabilità di tali trattamenti è stato temperato dalla facoltà di opzione introdotta dall’art. 2 comma 5 del d.l. n. 299 del 1994 alla luce del quale “all’atto dell’iscrizione nelle liste di mobilità, i lavoratori che fruiscono dell’assegno o della pensione di invalidità devono optare tra tali trattamenti e quello di mobilità”. In quella sede si è rammentato che la norma sopra citata non prevede espressamente quali siano le conseguenze del mancato esercizio dell’opzione nel termine previsto per l’iscrizione nelle liste ma si è ritenuto di poterle ricavare dall’art. 1287 secondo comma c.c. il quale stabilisce in forma generale per tutte le obbligazioni alternative le conseguenze del mancato esercizio della facoltà di scelta del creditore “nel termine stabilito” prevedendo la decadenza dalla facoltà di scelta che passa al debitore. In quel contesto si è ritenuto che, sebbene non si possa avere nel caso dell’iscrizione alle liste di mobilità alcun passaggio della facoltà di scelta al debitore, trattandosi di obbligazioni pubbliche in cui il comportamento dell’ente previdenziale è interamente assoggettato alla volontà di legge, tuttavia l’opzione tra i due trattamenti non potrebbe essere esercitata in ogni tempo ma deve piuttosto intervenire all’atto dell’iscrizione nelle liste di mobilità a pena di decadenza.

CTU disturbo dell’adattamento quale malattia professionale
Con la sentenza n. 15957 del 07.06.2024, la Cassazione afferma che la presenza di un clima lavorativo che crea stress è un fatto ingiusto che, anche in assenza di una condotta mobbizzante, fa sorgere in capo al dipendente un diritto al risarcimento.
In più occasione la S.C. ha avuto modo di affermare che “nell’ambito del sistema del T.U. in materia di infortuni sul lavoro, sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica (come peraltro prevede oggi a fini preventivi l’art. 28, comma 1, T.U. 81/2008.
Si allega un’interessante consulenza tecnica d’ufficio, espletata in un giudizio patrocinato dall’avv. Francesco Gentile, che ha riconosciuto il nesso di causalità tra il disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso e gli eventi connessi all’attività lavorativa.

Dalla documentazione agli atti e dai riferimenti anamnestici si rileva che il signor  xxx è affetto da carcinoma uroteliale papillifero della vescica.

A seguito di apposita richiesta, avanzata dal periziando in data 26/6/2013 per il riconoscimento della natura professionale della patologia oncologica a carico delle vie urinarie, l’INAIL, in data 20/11/2013, rigettava la richiesta per assenza del nesso causale.

Il ricorrente, ritenendo ingiusto il provvedimento, proponeva, in data 7/4/2014, opposizione, richiedendo riconoscimento della richiesta con postumi da riconoscersi nella misura del 35%, richiesta che l’INAIL rigettava con provvedimento del 16/5/2014.

Avverso tale provvedimento si giungeva all’attuale CTU.

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DOCUMENTAZIONE SANITARIA AGLI ATTI

 

  • Copia di curriculum professionale del periziando;
  • Copia di cartella clinica relativa a ricovero dal 13/9/2007 al 20/9/2007
  • Copia di cartella clinica relativa a ricovero del 20/1/2011 e 27/1/2011   diagnosi di “K vescicale”.
  • Copia di esame istologico   Servizio di Anatomia Patologica, Seconda Università degli Studi di Napoli, ASL NA1, con diagnosi di “…..carcinoma uroteliale papillare a basso potenziale di malignità, non infiltrante il corion”.
  • Copia di esame istologico  , Servizio di Anatomia Patologica, Seconda Università degli Studi di Napoli, ASL NA1, con diagnosi di “…..neoplasia uroteliale papillare a basso potenziale di malignità”.
  • Copia di ricorso contro INAIL dell’avvocato Francesco Gentile.

 

ESAME OBIETTIVO GENERALE

 

Soggetto di sesso maschile,  , in condizioni generali buone. Cute e mucose visibili rosee. Facies composita. Sistema pilifero normo-distribuito. Stazioni linfoghiandolari di superficie indenni.

– TESTA E COLLO: normoconservati i rapporti tra neurocranio e splancnocranio. Lingua umida, in asse, mucose rosee, collo di forma cilindrica. Alla regione anteriore del collo non si apprezzano tumefazioni da riferirsi ad aumento di volume della tiroide. La digitopressione sui punti di proiezione dei seni frontali e mascellari non evoca dolore.

– TORACE ED APPARATO RESPIRATORIO. Torace di forma tronco-conica, mobile con gli atti del respiro; SCP su tutto l’ambito, in assenza di rumori patologici. Basi polmonari normoespansibili.

– APPARATO CARDIOVASCOLARE. Aia cardiaca nei limiti. Itto puntale non visibile e non palpabile. Assenza di soffi e di rumori di significato patologico.

P.A mmHg 120/80, F.C. 80 b.p.m.. L’arteria radiale si apprezza alla palpazione ad ambedue i lati; l’arteria pedidia e la tibiale posteriore di ambedue gli arti inferiori sono normopulsanti.

– APPARATO DIGERENTE. Addome trattabile su tutto l’ambito. Cicatrice ombelicale normointroflessa. Organi ipocondriaci nei limiti.

 

CONSIDERAZIONI MEDICO-LEGALI E CONCLUSIONI

 

Sulla base dello studio della documentazione sanitaria agli atti, dell’indagine anamnestica e dell’esame obiettivo, si può affermare che il signor   risulta operato di TURB per un carcinoma uroteliale papillifero della vescica. La problematica medico legale è relativa all’accertamento del nesso di causalità tra l’attività lavorativa specifica del periziando e la patologia oncologica in anamnesi, ovvero della sua natura professionale.

Come risulta dagli atti, il de cuius ha svolto attività di coordinatore tecnico collaudi di materiali rotabili , alle dipendenze di Trenitalia S.p.A. (ex Ferrovie dello Stato). In particolare, tale attività si è svolta presso impianti produttivi quali NOMEF di Trepuzzi (LE), Officina Locomotive FS di Pietrarsa di Napoli, FIREMA di Caserta (ex OMC), Ansaldo di Napoli, SOFER di Pozzuoli, FIREMA Tito ex MML Metalmeccanica Lucana, FIREMA di Caserta ex Officine Casertane, FIREMA di Caserta, come si evince dal curriculum professionale agli atti.

Al riguardo, è da notare che, durante l’espletamento della propria mansione, ovvero l’attività di ispezione e collaudo di materiali rotabili, il p. era esposto a sostanze inquinanti quali ossido di carbonio, minio di piombo, petrolio e derivati, utilizzati come antiruggine, vernici per la manutenzione e riparazione di carri ferroviari,  idrocarburi policiclici aromatici, in particolare la trielina, utilizzata per la bonifica e disinfestazione dei luoghi e dei materiali, benzene, toluene e xilene, utilizzate nelle fasi di verniciatura, infine ad amianto, utilizzato per la coibentazione.

Analizzando in dettaglio l’attività svolta dal periziando, si può evincere che lo stesso sia stato esposto in particolar modo ad amianto nei periodi lavorativi relativi alla permanenza presso la Officina Locomotive di Pietrarsa, dal 1/3/1971 al 13/5/1973, presso la SOFER di Pozzuoli nei periodi da 1/1/1982 al 9/11/1987, dal 6/6/1988 al 8/1/1991, dal 4/5/1992 al 2/5/1993, dal 6/6/1994 al 4/12/1994, dal 3/5/1995 al 8/10/1995, da 1/1/1996 al 12/1/1997, dal 24/4/1997 al 31/12/1997, per un periodo complessivo di 13 anni, come si evince dalla scheda di utilizzazione lavorativa di Trenitalia S.p.A del 18/10/2004.

Nel caso di specie si deve analizzare la capacità delle esposizioni a tali sostanze, (in particolare idrocarburi policiclici aromatici, solventi, oli minerali e amianto) in merito al rapporto tra l’esposizione a tali sostanze a causare o concausare in via prevalente ed adeguata  l’insorgenza della patologia tumorale sviluppatasi nel soggetto.

E’ opportuno esporre alcuni brevi cenni in merito alle proprietà chimiche di tali sostanze.

Gli idrocarburi sono molecole binarie, costituite da carbonio ed idrogeno, classificabili in:

1. idrocarburi alifatici saturi,  alcani, o paraffine: sono composti derivanti dal petrolio. Molti di questi composti  sono presenti nei gas naturali terrestri e negli oli grezzi e sono rinvenibili in discrete quantità nei gas di scarico delle auto. Vengono usati soprattutto come combustibili, solventi ed oli lubrificanti. Le principali miscele contenenti idrocarburi alifatici sono: etere di petrolio, gas (metano, etano, propano, butano ecc), benzina, gasolio, nafta, kerosene, combustibili per motori a reazione, oli lubrificanti, paraffine, catrame e vaselina.

2. idrocarburi alifatici insaturi “alcheni o olefine”: tra questi ritroviamo: l’isoprene  e le olefine. I composti più importanti di quest’ultima categoria sono l’etilene, il propinele e il butilene.

3idrocarburi aromatici: le sostanze chimiche appartenenti a questo gruppo contengono nella loro molecola uno o più gruppi benzenici. I composti principali (benzene, toluene, xilene, etilbenzene, stirene e cumene) trovano largo impiego come materie prime, prodotti intermedi nei processi di sintesi industriali e come solventi.

Gli effetti tossici degli idrocarburi aromatici sono:

acuti: dopo inalazione dei vapori producono segni a carico del SNC.

cronici: il benzene è in grado di determinare danni del midollo osseo (aplasia del midollo, riduzione del numero di piastrine, dei globuli bianchi e degli eritrociti). In uno stadio più avanzato possono comparire anemia o policitemia, leucopenia o leucocitosi e leucemia.

Gli oli minerali non raffinati sono fondamentalmente prodotti della distillazione del catrame. Il loro potere cancerogeno è legato al contenuto di diversi IPA (idrocarburi aromatici policiclici) cancerogeni ed alcuni idrocarburi alifatici. Le patologie tumorali di cui sono responsabili hanno come principale organo bersaglio la cute.

Con il termine di asbesto o amianto vengono indicati dei silicati a diversa composizione chimica, microcristallini a conformazione fibrosa, oggi ritenuti i principali responsabili dell’asbestosi.

L’asbestosi è una  fibrosi interstiziale diffusa causata dall’inalazione e dall’accumulo di fibre di asbesto nel polmone; le stesse possono causare quadri di fibrosi e calcificazioni pleuriche, neoplasie del polmone, della pleura e del peritoneo.

Le principali patologie da amianto comprendono: pleuropatie:placche parietali, ispessimenti diffusi viscerali, versamenti recidivanti, atelettasie rotonde. pneumopatie: alveolite, fibrosi interstiziale diffusa (asbestosi) neoplasie: carcinoma polmonare, mesotelioma (pleurico, peritoneale). Tali patologie, asbesto correlate, sono inserite nella lista di patologie che l’INAIL riconosce con elevata probabilità correlate all’esposizione a fibre di asbesto (lista I). Vi sono altre neoplasie potenzialemte correlate all’esposizione all’amianto, quelle inserite nella lista II, ovvero nei casi di malattia che l’INAIL stima di limitata probabilità in termini di correlazione con l’amianto, nelle quali rientrano il tumore della faringe, dello stomaco e del colon retto e infine la lista III, nella quale rientra il solo cancro dell’esofago.

Il tumore della vescica, di cui è stato operato il p.  non rientra pertanto nelle tabelle  INAIL relative alle patologie considerate correlate con elevata probabilità all’esposizione all’amianto. In tal senso è utile ricordare alcune sentenze della Corte Costituzionale. Infatti, per le patologie che non figurano nelle tabelle INAIL, comunque cagionate da agenti patogeni nell’ambiente lavorativo, come per il caso dell’amianto, l’intervento della Corte Costituzionale, prima con la sentenza n. 179 del 18.02.88 e poi con la Sentenza n. 206 del 25.02.88, ha determinato il definito superamento del sistema delle tabelle, e ha sancito, con il sistema misto, l’indennizzabilità ‘anche per le malattie per le quali sia comunque provata la causa di lavoro (Corte Costituzionale, Sentenze n. 179 del 18.02.88, e n. 206 del 25.02.88).

E’ inoltre possibile affermare la presunzione legale di origine professionale della malattia soltanto nel caso in cui sussista una implicita inclusione nelle tabelle, e/o identità di connotati essenziali, e/o piena somiglianza con la fattispecie inclusa nella lista (Corte di Cassazione, Sezioni Unite, Sentenza n. 1919 del 09.03.90). In tal caso “il Giudice può fare una applicazione estensiva di tali previsioni in caso di infermità del tutto identica a quella cagionata o derivata da una lavorazione tabellata (vedi Corte Costituzionale n. 179 del 1988)”. In caso di insorgenza di patologie diverse da quelle indicate nelle tabelle e comunque causate e/o concausate dall’esposizione a polveri e fibre di amianto, il lavoratore ha diritto ad ottenere il riconoscimento delle prestazioni previdenziali erogate dall’Inail purchè renda la prova del nesso di causalità.

Al riguardo è da ricordare che in letteratura esistono alcune evidenze di presenza di fibre di asbesto nei tumori dell’urotelio, anche se si tratta di lavori retrospettivi che non consentono di accertare con ragionevole certezza il nesso causale tra l’esposizione e/o la presenza di asbesto e lo sviluppo di una neoplasia maligna dell’epitelio vescicale (Bianchi et al., 2007; Graziano et al., 2009; Manzini et al., 2010; Pavone et al., 2012, L.Pollice e al.1995) ma che al contempo non permettono in modo assoluto  di escludere tale potenziale correlazione. Pertanto, l’amianto, riconosciuto come sicuro agente cancerogeno sull’uomo, non si esclude possa essere agente eziopatogenetico concausale allo sviluppo di neoplasie a carico delle vie urinarie.

Il cancro della vescica rappresenta senza dubbio una delle più frequenti patologie neoplastiche ed è la più importante patologia urologica a genesi professionale. Nella maggior parte dei casi la causa del cancro vescicale non è chiara e ciò è tra l’altro dovuto al tempo di latenza di decine di anni tra l’effetto di un agente e la manifestazione della malattia. Dal punto di vista della medicina del lavoro è rilevante soprattutto l’esposizione alle amine aromatiche (sinonimo di arilamine) e agli idrocarburi policiclici aromatici (PAH o IPA), raramente a derivati di oli fossili o arsenico, tutti potenziali sostanze ad azione cancerogena a carico dell’epitelio uroteliale. Per molti anni, i prodotti di combustione sono stati sospettati come agenti cancerogeni responsabili del cancro della vescica. Studi di coorte evidenziano un aumento di rischio del tumore della vescica nella produzione di gas, nell’industria dell’alluminio e negli esposti ai prodotti esausti dei motori. Tutte queste professioni hanno in comune l’esposizione ad idrocarburi policiclici aromatici (IPA) e, in certi casi, ai loro nitroderivati, come i composti “diesel exhaust”, riconosciuti dalla IARC come “probabili carcerogeni per l’uomo” (Group 2A) (63). Una categoria lavorativa ad alto rischio di esposizione a “diesel exhaust” è rappresentata dagli autisti di camion e dai macchinisti di treni. In generale, i dati ambientali permettono di distinguere un livello alto, medio e basso di esposizione ai prodotti di combustione:

  • alto livello di esposizione professionale ai prodotti di combustione è stato documentato per gli addetti ai forni di cokeria e tra i lavoratori negli impianti di produzione dell’alluminio (addetti siviera).
  • livelli medi di esposizione professionale, cioè concentrazioni inferiori rispetto a quanto misurato nel settore siderurgico, è stata evidenziata tra gli addetti all’impermeabilizzazione e catramazione dei tetti (“roofers”), gli asfaltatori, etc..
  • concentrazioni più basse rispetto ai settori precedentemente analizzati sono state evidenziate nel settore dei trasporti (autisti di camion, di auto, di treni etc.), tra i meccanici, gli edili etc.

Come viene evidenziato in una recente review (Pronk A, 2009), utilizzando la concentrazione di carbonio elementare (EC) quale marker di esposizione a “diesel exhaust”, i valori ottenuti da 10.001 campionamenti personali ottenuti da 32% di esposizioni “on-road” e da 68% esposizioni “off-road”, sono generalmente <25 microg/mc, cioè di livello basso per autisti, equipaggio dei treni, etc. rispetto sia ai valori intermedi (EC<50 microg/mc) misurati nei meccanici, nei pompieri, etc. sia ai valori di esposizione alti (EC=27-658 microg/mc) ottenuti tra i minatori e gli addetti alle costruzioni. Anche nel settore dei trasporti ferroviari, in Canada, la concentrazione di “diesel exhaust”, espressa come carbonio elementare, risulta più bassa rispetto a quella del settore estrattivo. Analoghi risultati sono stati ottenuti anche in Finlandia, dove sono state valutate le esposizioni a “diesel exhaust” (indicato dal diossido di azoto, NO2) e a “gasoline engine exhaust” (classificato dalla IARC “possibile cancerogeno per l’uomo”, Gruppo 2B) di 23 e 17 professioni rispettivamente (tra queste anche autisti, meccanici, asfaltatori, etc.) utilizzando una matrice lavoro-esposizione. Uno dei più ampi studi sulla misurazione dell’esposizione di autisti di camion (sia autisti per brevi sia per lunghi tragitti ) a “diesel exhaust” è stato effettuato negli USA tra il 2001 e i 2005; tale studio evidenzia l’impatto sulle concentrazioni rilevate delle caratteristiche del veicolo e dell’abitudine al fumo degli autisti.

Mentre alcuni autori riconoscono, sulla base di studi caso-controllo, la categoria degli autisti di camion e treni come esposti a composti “diesel exhaust”, ad alto rischio di cancro della vescica, Olsen e Jensen (1987) hanno osservato un elevato rischio solo dopo più di 20 anni di esposizione, altri ancora hanno evidenziato un rischio basso di cancro della vescica per soggetti esposti a “diesel exhaust” (Baxter PJ et al, 1986; Claude J et al, 1988; Schoenberg JB et al, 1984; Silverman DT et al, 1983; Smith AH et al, 1988); infine altri ancora non hanno evidenziato alcuna associazione (Coggon D et al, 1984; Cordier S et al, 1993; Steineck G, 1990; Vineis P e Magnani C, 1985). In generale, appare ancora dubbia l’associazione tra esposizione a “diesel exhaust” e tumori vescicali. L’agente etiologico specifico responsabile del cancro della vescica nel settore dei trasporti non è stato identificato, anche se il candidato più probabile è il prodotto di scarico dei motori. I prodotti di scarico dei mortori diesel, in particolare, sono associati con un aumentato rischio di cancro della vescica.

Da quanto sopra esposto è chiaro pertanto il potenziale effetto cancerogeno a carico delle vie urinarie esercitato agli idrocarburi policilici aromatici, la cui esposizione professionale rende un lavoratore a rischio di svilupppo di un tumore delle vie urinarie.

Ritornando al caso in esame, ai fini del rischio ambientale e della conseguente indennizzabilità della malattia professionale ad esso collegata, è importante ricordare che assume rilievo l’esecuzione di un attività lavorativa che, per esigenze obiettive, debba costantemente e normalmente, anche se non quotidianamente, svolgersi in connessione ambientale con la lavorazione protetta, tale da determinare l’esposizione del lavoratore al rischio cui è esposto l’addetto di queste lavorazioni (Cass. Sez. Lav., 08.10.92, n. 10949). Nel caso in esame si può evincere dai dati agli atti che le sostanze cui il p. era esposto nella sua attività lavorativa, potenzialmente correlate con la patologia tumorale in anamnesi, erano le fibre di amianto e alcuni idrocarburi policiclici aromatici. Questi ultimi sono da considerare sostanze inquinanti a rischio cancerogeno anche per le vie urinarie mentre per l’amianto, classificata come sostanza cancerogena, il suo ruolo eziopatogenetico a carico dell’urotelio non  può essere escluso, potendo anche esercitare una potenziale sinergia con le altre sostanze cancerogene presenti nell’ambiente lavorativo, come ad esempio gli idrocarburi policiclici.

Proprio nella valutazione qualitativa di tale rischio ruolo centrale  è rappresentato dall’attività svolta da alcune istituzioni, in primo luogo dall’Agenzia di Ricerca sul Cancro dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (I A R C), dalla Commissione della Comunità Europea (C E E) e dalla Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale del Centro Studi del Ministero della Salute Italiano (C C T N).  Questi organismi, che operano a livello internazionale (come la IARC e la Commissione della CEE) o nazionale (come la CCTN), hanno anche il compito specifico di valutare i rischi per l’uomo e per l’ambiente derivanti dall’esposizione a sostanze chimiche ed altri agenti, classificando tali agenti secondo criteri specifici, in base ai risultati di studi epidemiologici e di studi sperimentali su animali.I principi che sottostanno ai criteri di valutazione delle varie Agenzie sono simili, come si evince dalla sottostante tabella:

IARC Descrizione Descrizione CCTN
1 Cancerogeno per l’uomo Effetti cancerogeni per l’uomo 1
Cancerogeno probabile Da considerare cancerogeno per l’uomo 2
2B Cancerogeno possibile Da considerare con attenzione per i possibili effetti cancerogeni per l’uomo  

3A

3B

3 Non classificabile per la cancerogenicità per l’uomo Sostanze non valutabili per la cancerogenicità 4A

4B

4 Probabile non cancerogeno per l’uomo Sostanze probabilmente non cancerogene per l’uomo 5

 

La classificazione di cui sopra costringe gli esperti dalla IARC, nella fase di valutazione del rischio basata sul peso dell’evidenza, ad inserire agenti o misture o circostanze di esposizione in uno dei gruppi citati. Recentemente alcuni autori hanno affermato che le definizioni comprese nella classificazione della IARC si potrebbero tradurre in termini numerici, assegnando alle varie sostanze dei gradi di probabilità, che in via ipotetica potrebbero essere indicati nella tabella che segue:

Gruppo Probabilità di cancerogenicità
1 P = 100%
2A P = 75%
2B P = 50%
3 P = 25%
4 P = 0%

 

Prendendo, quindi, come riferimento le tabelle IARC sopra menzionate, l’amianto e gli idrocarburi policiclici aromatici rientrano nel I gruppo (probabilità di cancerogenicità del 100%). Gli idrocraburi aromatici policiclici sono principalmente presenti in  aree produttive quali industria  chimica e petrolchimica, fonderie, industrie dell’alluminio primario, le principali fonti di esposizione professionale sono rappresentate da lavorazione del carbone, distillazione del catrame, fusione del ferro e dell’acciaio, produzione dell’alluminio, bitumazione in edilizia e lavori stradali. Gli organi interessati dal rischio cancerogeno sono vie respiratorie e vie urinarie, in particolare per lo sviluppo di carcinomi polmonari e vescicali.

Da quanto precedentemente argomentato emerge che è ravvisabile una possibile correlazione causale o concausale adeguata e preponderante tra l’esposizione professionale alle sostanze o agenti fisici (idrocarburi policiclici aromatici ed amianto) a cui il sig. xxx è stato esposto nel corso dell’espletamento delle sue mansioni e il carcinoma della vescica da cui è affetto e per il quale si è sottoposto ad iniziale TURV seguita da instillazione endovescicale di antiblastici a scopo profilattico, e a successivi interventi per recidive di malattia. In altri termini il servizio espletato (coordinatore tecnico collaudi di materiali rotabili), può aver esercitato una probabile influenza sull’evoluzione del quadro morboso sviluppatosi nel p. Tale infermità è insorta, dunque, per fattori legati ad esposizione professionale ad agenti potenzialemnte cancerogeni per le vie urinarie, sede della malattia oncologica in anamensi del p.. Pertanto, sulla scorta delle suesposte considerazioni, non si può escludere che il servizio prestato dal sig xxx sia stato la causa diretta o la concausa necessaria e prevalente dell’insorgenza della malattia in argomento e pertanto del possibile nesso causale e concausale.

E’ indubbio che esista una sostanziale difficoltà per correlare l’esposizione a determinate sostanze alla diagnosi di una neoplasia di natura professionale, ciò per una serie di motivi quali:

  • il lungo periodo di latenza tra esposizione e insorgenza della patologia: in genere decorrono tra i 20 e i 30 anni, quindi risulta difficile risalire alle condizioni di lavoro e alle sostanze con cui si è venuti in contatto durante la vita lavorativa;
  • la difficoltà a identificare tutte le sostanze con le quali il lavoratore è venuto a contatto e a definire l’intensità dell’esposizione;
  • le scarse conoscenze sulle esposizioni multiple e sulle interferenze fra le diverse sostanze;
  • le possibili interazioni fra esposizioni professionali, abitudini di vita e suscettibilità individuale,

Nel caso in esame, comunque, per i motivi prima esposti, si può concludere che il sig. xxx, in seguito alla prolungata esposizione professionale a sostanze cancerogene a carico delle vie urinarie, abbia sviluppato una patologia maligna a carico dell’epitelio vescicale, patologia che configura una invalidità permanente, in base alla tabella del danno biologico permanente (D.M. del 12 Luglio 2000) sotto riportata, valutabile in misura del 30%.

 

Neoplasie
Lesioni precancerose efficacemente trattate Fino a 5
Neoplasie maligne che si giovano di trattamento medico e/o chirurgico locale, radicale Fino a 10
Recidive di neoplasia maligna che si giovano di trattamento medico e/o chirurgico locale, radicale Fino a 16
Neoplasie maligne che si giovano di trattamento medico e/o chirurgico ai fini di una prognosi quoad vitam superiore a 5 anni, a seconda della persistenza e dell’entità di segni e sintomi minori di malattia, comprensivi degli effetti collaterali della terapia Fino a 30
Neoplasie maligne che non si giovano di trattamento medico e/o chirurgico ai fini di una prognosi quoad vitam superiore a 5 anni;i pazienti richiedono speciali cure ed assistenza, sono sostanzialmente abili allo svolgimento delle necessità primarie ed agli atti del vivere comune Fino a 60
Neoplasie maligne che non si giovano di trattamento medico e/o chirurgico ai fini di una prognosi quoad vitam superiore a 5 anni, il supporto terapeutico ed assistenziale è necessario e continuo, il soggetto è severamente disabile, è indicata l’ospedalizzazione Fino a 80
Neoplasie maligne con metastasi plurime diffuse e severa compromissione dello stato generale con necessità di ospedalizzazione ovvero di presidi domiciliari equivalenti, sebbene la morte non sia imminente > 80
Cachessia neoplastica 100

 

 

IL C.T.U.

Ordinanza Cassazione 212024 del 2024

Con l’ordinanza che si allega (nr.21204 del 30.7.2024), la Cassazione afferma che in tema di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, il dipendente illecitamente somministrato o utilizzato in un appalto illecito di manodopera deve considerarsi alle dipendenze del datore di lavoro effettivo, in quanto il rapporto assicurativo sociale si costituisce immediatamente in forza di legge col datore di lavoro effettivo.
Nella causa patrocinata dall’avv. Francesco Gentile, il lavoratore veniva investito da un muletto nel corso dell’attività svolta all’interno dell’azienda gestita dalla PCP.
Lo stesso era addetto alla macchina ribobinatrice, nonostante fosse stato formalmente assunto da altra azienda a cui la PCP aveva appaltato i lavori di pulizia.
In primo grado veniva accolta la domanda di risarcimento del danno differenziale con condanna della società committente e della compagnia di assicurazione.
A seguito di appello della compagnia assicuratrice, la Corte territoriale riteneva che l’infortunio occorso al lavoratore non poteva rientrare nell’ambito della copertura di polizza.
Ribaltando l’orientamento del Giudice di merito, la Corte di Cassazione ha sostenuto che il rapporto assicurativo sociale si costituisce immediatamente in forza di legge col datore di lavoro effettivo e che la copertura è assicurata dai contributi, a tal fine, versati dal datore interposto che liberano quello effettivo.

E’ stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 18/11/2023, entrando in vigore il giorno successivo, la Nuova Tabella delle Malattie Professionali di cui al Decreto del Ministero del Lavoro di concerto col Ministero della Salute del 10/10/2023.

In particolare, per le patologie da sovraccarico biomeccanico è stata modificata la definizione della lavorazione nociva: il “non occasionale” diventa “abituale e sistematico” e per l’arto superiore è stato introdotto, oltre alla ripetitività del movimento, l’ “uso di forza”.

Difatti per il riconoscimento della natura professionale di patologie da sovraccarico biomeccanico occorreva che  “l’adibizioneallelavorazioni” fosse avvenuta inmanieranonoccasionalee/oinmanieraprolungata.

E per definire ulteriormente e in modo certo il campo per il riconoscimento dimalattia professionale, era intervenuta la Corte di Cassazione con l’indicazioneche“l’adibizione alla lavorazione può ritenersi non occasionale quandocostituisca una componente abituale e sistematica dell’attività professionaledell’assicurato e sia dunque intrinseca alle mansioni che lo stesso è tenuto aprestare”. Ed ancora è stato chiarito che la “lavorazione prolungata” è quellasvolta“inmododuraturo,perunperiododitemposufficientementeidoneoa causarelapatologia.”

Nella circolare INAIL n. 47/2008, che ha accompagnato tali tabelle, proprio inriferimento alle malattie muscolo-scheletriche si riporta “… sono state introdottelemalattiemuscoloscheletrichecausatedasollecitazionibiomeccaniche,aseguito di movimenti ripetuti e/o posture incongrue dell’arto superiore, del ginocchio e della colonna vertebrale; pertali patologie è previsto che la presunzione legale operi quando l’adibizione alle lavorazioni indicate avvenga in maniera non occasionale e/o prolungata.Al riguardo, secondo l’insegnamento della Corte di Cassazione, l’adibizione alla lavorazione può ritenersi nono ccasionale quando costituisca una componente abituale e sistematica dell’attività professionale dell’assicurato e sia dunque intrinseca alle mansioni che lo stesso è tenuto a prestare. Accanto al requisito della non occasionalità, le previsioni tabellari richiedono che l’assicurato sia stato addetto alla lavorazione in maniera prolungata ossia in modo duraturo, per un periodo di tempo sufficientemente idoneo a causare la patologia”.

La modifica intervenuta con le nuove tabelle recepisce l’indicazione della Suprema Corte, con l’aggiunta dell’uso della forza.

Riconosciuta dall’INAIL la rendita al coniuge superstite di lavoratore deceduto a seguito di contagio da COVID-19 sul posto di lavoro e in occasione dello svolgimento di attività lavorativa. Nella fattispecie si trattava di dipendente di macelleria che nel periodo maggio-luglio 2020 aveva avuto un continuo contatto con la clientela, molto spesso portatori di mascherina indossata in modo non corretto, quasi sempre sprovvisti di guanti o strumenti di protezione per le mani.

A seguito della reiezione della domanda da parte dell’INAIL, la vedova, assistita dall’avv. Francesco Gentile , aveva adito il Giudice sul presupposto che il contagio da COVID-19 era avvenuto sul posto di lavoro e in occasione dello svolgimento di attività lavorativa.

La CTU espletata nel detto giudizio ha considerato la probabilità che il contagio del lavoratore sia avvenuto nello svolgimento dell’attività lavorativa, muovendo dal presupposto che la via principale e preponderante di diffusione del SARS-CoV2 risulta essere quella dell’aspirazione mediante le vie respiratorie di particelle virali o di microgocce di acquose contaminate da particelle virali disperse nell’aria. Conseguentemente, mansioni caratterizzate dal contatto diretto con il pubblico a una distanza ravvicinata in un ambiente chiuso, prolungato quantomeno nell’arco di alcuni minuti, costituiscono una situazione lavorativa pacificamente idonea alla trasmissione del SARS-CoV2, soprattutto nel momento in cui il lavoratore non indossi un idoneo dispositivo di protezione respiratoria individuale. Riportando tali considerazioni al caso di specie, il c.t.u. ha quindi ritenuto che “alla luce della ascrivibilità del decesso della Paziente a patologia derivante da SARS-CoV2, e considerate le specifiche modalità con cui è stata descritta la modalità di effettuazione della mansione lavorativa (a contatto con il pubblico), quest’ultima può essere stata idonea nel rappresentare la circostanza di trasmissione del SARS-CoV2, senza comunque poter tecnicamente circoscrivere in maniera puntuale il preciso momento (giorno ed orario) dell’effettivo contagio, e pur comunque annotando che le tempistiche di incubazione virale sono coerenti con le tempistiche di presenza del lavoratore  sul posto di lavoro nella primavera del 2020”.

Si tratta peraltro di considerazioni fatte proprie anche dall’INAIL in alcune sue circolari, laddove ad esempio si afferma che la presunzione semplice di origine professionale del contagio da coronavirus vigente per gli operatori sanitari non esaurisce l’ambito di tutela da parte dell’INAIL in quanto “A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico/l’utenza. In via esemplificativa, ma non esaustiva, si indicano: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari” (Circolare INAIL n. 13 del 3 Aprile 2020).