Il tumore del colon in soggetto esposto all’amianto : è malattia professionale
Il Tumore del colon retto è una neoplasia ad eziologia multifattoriale, per la quale si riconoscono fattori di rischio ambientali, comportamentali (fumo, scarsa attività fisica, obesità), dietetici (elevato consumo di carni rosse e alcol e/o scarso consumo di prodotti freschi quali frutta e verdura), la presenza di altre patologie predisponenti (diabete, sindrome metabolica) che sono comuni ai fattori di rischio per i tumori del colon , le malattie infiammatorie croniche intestinali ( Morbo di Crohn, Rettocolite ulcerosa, Poliposi ) e la familiarità di primo grado per neoplasie colon-rettali.
Una recente metanalisi ha evidenziato che la radioterapia sulla pelvi, indipendentemente dal tipo di neoplasia irradiata, è responsabile di un aumentato rischio di sviluppare un tumore al retto.
Circa la correlazione tra Amianto e Tumore del colon-retto vanno fatte alcune considerazioni. Si consideri che nell’ultima monografia IARC Volume C100– Arsenico, Metalli, Fibre e Polveri – una Review dei Carcinogeni Umani – che comprende tutti gli agenti classificati precedentemente come cancerogeni per l’uomo – si sono esaminati i dati di 41 coorti occupazionali e 13 studi caso-controllo che riportavano prove sull’associazione tra amianto e cancro del colon-retto.
Un’associazione tra l’esposizione professionale all’amianto ed il cancro del colon-retto è stata segnalata per la prima volta nel 1964 da Selikoff et al. in una coorte di 632 lavoratori a New York e nel New Jersey. Seidman et al (1986) riscontrarono una elevata mortalità da cancro di colon-retto in una popolazione di 820 maschi lavoratori in fabbrica in USA esposti all’amianto amosite (Rapporto Standardizzato di mortalità – SMR- 2.77). Essi notarono che il cancro del colon-retto in lavoratori esposti all’asbesto era una malattia a lunga latenza: in uno studio di coorte olandese (n = 58.279 uomini, di età compresa tra 55 e 69 anni al basale), con esposizione lavorativa all’amianto dopo 17,3 anni di follow-up, erano disponibili per l’analisi 187 casi di cancro esofageo, 486 gastrico e 1.724 colorettale. I modelli aggiustati per età e storia familiare di cancro hanno mostrato che l’esposizione principalmente prolungata ad alti livelli di amianto era associata in modo statisticamente significativo al rischio di adenocarcinoma esofageo, cancro del colon totale e distale e cancro del retto. In questo studio sono state valutate le differenze di rischio tra esposizione relativamente bassa ed elevata, il rischio associato ai sottotipi di cancro, l’influenza di potenziali fattori confondenti e l’interazione tra amianto e fumo in relazione al rischio di cancro.
Per nessuno dei tumori studiati è stata osservata alcuna interazione additiva o moltiplicativa statisticamente significativa tra amianto e fumo (Esposizione professionale all’amianto e rischio di cancro esofageo, gastrico e del colon-retto nello studio prospettico di coorte olandese – Epub 2014).
Il Consensus Report Asbestos, Asbestosis and Cancer: Helsinki Criteria for Diagnosis and Attribution, aggiornato nel febbraio 2014 ha considerato l’evidenza per attribuire all’esposizione ad amianto un tumore della laringe, tumore dell’ovaio, tumore del colon retto e tumore dello stomaco. Negli Helsinki Criteria del 1997 veniva indicato come valore soglia per l’attribuzione di causalità di una malattia in soggetti esposti un rischio relativo di 2. Il Consensus 2014 aggiornato raccomanda che la soglia del rischio relativo non debba essere superiore a 2, ma possa essere stabilita a livelli inferiori.
Il rischio relativo (RR) è una misura della forza dell’associazione tra due fenomeni; nel nostro caso, tra esposizione e malattia. Esso esprime l’entità del rischio nei soggetti esposti rispetto a quelli non esposti. Ad es. RR=1 indica un rischio negli esposti pari a quello della popolazione generale; RR=1,5 indica un rischio aumentato del 50%; RR=2 indica un rischio doppio rispetto alla popolazione generale.
Circa i livelli di esposizione: nei Criteri di Helsinki, per il tumore polmonare sono stati stabiliti dei valori soglia di esposizione alle fibre di asbesto, identificati in 25fibre/ml/anni, ed in assenza di dati quantitativi di esposizione, quest’ultimo requisito può essere ritenuto soddisfatto qualora sia presente una storia occupazionale di almeno 1 anno di esposizione elevata (ad es. produzione di manufatti in amianto, spruzzatura di amianto, coibentazione) o 5–10 anni di esposizione moderata (ad es. costruzione , manutenzione , ristrutturazione di manufatti contenenti amianto).
Per le altre neoplasie asbesto-correlate non è stato identificato un valore soglia di esposizione, per cui il documento di Consenso ha determinato la relazione tra il Rischio Relativo di ciascuna nuova entità tumorale e il Rischio Relativo del tumore del polmone, utilizzando i risultati degli studi di coorte che hanno valutato il Rischio Relativo per entrambi.
Una più recente metanalisi pubblicata ad ottobre 2019 (Epub 2019), è stata eseguita per valutare quantitativamente l’associazione tra esposizione all’amianto e cancro del colon-retto: si è riscontrato un aumento significativo del rischio di mortalità per cancro del colon-retto tra i lavoratori esposti all’amianto a livello professionale (Rapporto Standardizzato di Mortalità- SRM- complessivo aggregato di 1,16 (IC 95%: da 1,05a 1,29). L’SMR aggregato per il cancro del colon-retto era elevato negli studi in cui era elevato anche il rischio di cancro ai polmoni associato all’amianto (1,43; IC al 95%: da 1,30 a 1,56). Ciò implica che il rischio di mortalità per cancro del colon-retto aumenta con l’aumentare del livello di esposizione all’amianto.
Il Consensus 2014 ha determinato la relazione tra il rischio relativo di ciascuna nuova entità tumorale e il rischio relativo del tumore del polmone; circa il tumore del colon retto e dello stomaco ha concluso che attualmente non possa essere considerato con certezza una patologia causata dall’amianto.
Anche la IARC- International Agency for Research on Cancer – si esprime, pertanto, con debole evidenza affermando che il tumore del colon retto non può, allo stato attuale, essere considerato con certezza conseguente all’esposizione all’asbesto, sebbene, rielaborando i dati e confrontando i Rapporti Standardizzati di Mortalità – SMR – per cancro al polmone con gli SMR per il cancro dello stomaco e del colon-retto abbia trovato un’associazione positiva e statisticamente significativa.
Il tumore del colon retto è inserito nella Lista II – Gruppo 6- Tumori Professionali – codice identificativo II.6.03 – C18-C20, della Tabella delle Malattie Professionali ( Il Decreto interministeriale 10 ottobre 2023 ha approvato la Revisione delle tabelle delle malattie professionali nell’industria e nell’agricoltura, di cui agli articoli 3 e 211 del Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n.1124, che sostituiscono quelle precedentemente approvate con decreto interministeriale 9 aprile 2008). La Lista II comprende le malattie causate dall’asbesto la cui origine lavorativa è di limitata probabilità e per le quali per riconoscerne il nesso causale è necessario dimostrare l’esposizione all’agente.
La correlazione tra asbesto e tumore del colon è stata ampiamente studiata in letteratura: a) monografia IARC 2012 (Asbestos. Actinolite, amosite, anthophyllite, chrysotile, crocidolite, tremolite. IARC Monogr Evaluation Carcinog Risk Chem Man, Vol. 100C) in cui si “fa riferimento specifico all’aumentata incidenza di tumore del grosso intestino ed in generale dei tumori gastrointestinali tra coloro che sono stati esposti professionalmente a polveri e fibre di amianto”; b) (Carcinoma of the colon in asbestosexposed workers: analysis of asbestos content in colon tissue), “hanno premesso che precedenti lavori scientifici avevano consentito di appurare una più alta incidenza di decessi per tumore al colon tra coloro che erano stati esposti ad amianto”; c) le conclusioni del Gruppo di Lavoro di esperti, per cui “sussiste “una associazione positiva tra esposizione ad amianto e cancro del colon retto, basata su risultati abbastanza consistenti di studi di coorte occupazionali, oltre all’evidenza di relazioni positive esposizione-risposta tra esposizione cumulativa ad amianto e cancro del colon retto riportata costantemente nei più dettagliati studi di coorte”; d) le meta analisi ( & 1988; Homa et al., 1994; IOM, 2006; Gamble, 2008); d) la direttiva 2009/148/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del “sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione all’amianto durante il lavoro”, in cui all’allegato 1 “Raccomandazioni pratiche per l’accertamento clinico dei lavoratori, di cui all’articolo 18, paragrafo 2, secondo comma” si legge: “In base alle conoscenze di cui si dispone attualmente, l’esposizione alle fibre libere di amianto può provocare le seguenti affezioni: asbestosi, mesotelioma, cancro del polmone, cancro gastrointestinale“; e) il Piano Nazionale Amianto nel quale il Governo italiano ha previsto che “prioritariamente vanno indagate le patologie correlate ad esposizione ad amianto, così come elencate nella monografia n. 100 della IARC e classificate nei gruppi I e II: tumore del polmone, della laringe, dell’ovaio, del colon retto, dell’esofago, dello stomaco” e un successivo studio prospettico di popolazione esposta in modo prolungato ad amianto che “ha dimostrato una più alta incidenza dei casi di cancro al colon, totale e distale, e del cancro rettale (Offermans NSM e collaboratori (Occupational asbestos exposure and risk of esophageal, gastric and colorectal cancer in the prospective Netherlands, Cohort Study (Int. J. Cancer: 00, 00–00 (2014) VC 2014 UICC).
Fatte queste premesse, si rileva che nel nostro ordinamento il nesso causale è ispirato al principio di equivalenza delle cause, per cui occorre tenere conto di qualsiasi fattore, anche indiretto, remoto o di minore spessore, sul piano eziologico che abbia concretamente cooperato a creare una situazione tale da favorire un’azione dannosa. La nostra giurisprudenza ha rifiutato un approccio rigidamente deterministico al tema causale ed ha ribadito che non è indispensabile che si raggiunga sempre la certezza assoluta.
Per cui anche se è modesta l’efficacia del fattore professionale non si debba escludere il principio di equivalenza causale.
A tal proposito la S.C., con sentenza n.10430/2017 (fattispecie analoga al presente giudizio: malattia professionale (patologia neoplastica al colon), a causa dell’esposizione a sostanze nocive (in particolare amianto) ha affermato quanto segue:
Va altresì ricordato che il nostro ordinamento in materia di nesso casuale (artt. 40 e 41 c.p.) è ispirato al principio di equivalenza delle cause; per cui, al fine di ricostruire il nesso di causa, occorre tener conto di qualsiasi fattore, anche indiretto, remoto o di minore spessore, sul piano eziologico, che abbia concretamente cooperato a creare nel soggetto una situazione tale da favorire comunque l’azione dannosa di altri fattori o ad aggravarne gli effetti, senza che possa riconoscersi rilevanza causale esclusiva soltanto ad uno dei fattori patologici che abbiano operato nella serie causale. Sicché solo qualora possa ritenersi con certezza che l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa sia stato di per sé sufficiente a produrre la infermità deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge (Cass. 26 marzo 2015 n. 6105; Cass. 11 novembre 2014 n. 23990); mentre per contro va negato che la modesta efficacia del fattore professionale sia sufficiente ad escludere l’operatività del principio di equivalenza causale (Cass. 12 ottobre 1987 n. 7551, Cass. 8 ottobre 2007 n. 21021).
Nella citata sentenza n. 10430/2017 (in una causa intentata dagli eredi del lavoratore nei confronti dell’Inail), la Cassazione si è occupata di un tumore al colon (malattia multifattoriale non tabellata) riconoscendo l’esistenza del nesso causale con l’esposizione ad amianto. Ha ricordato anzitutto che, per risalente e consolidata interpretazione anche costituzionale (Corte Cost. 206/74), ai fini dell’operatività della tutela assicurativa è sufficiente l’identificazione di un rischio ambientale (cfr. Cass. SU 13025/2006; 15865/2003, 6602/2005, 3227/2011), ossia che il lavoratore abbia contratto la malattia di cui si discute in virtù di una noxa comunque presente nell’ambiente di lavoro; non è mai necessario che il lavoratore sia specificatamente addetto a un’attività pericolosa comportante l’utilizzo di sostanze nocive. Ha poi ribadito che la regola fondante della causalità nel nostro ordinamento è quella di equivalenza delle condizioni e del concorso delle cause (41 c.p.) per cui non è necessario che si individui un fattore causale esclusivo di natura professionale per poter affermare il nesso. Ed è proprio questo il chiarimento centrale intervenuto per le malattie multifattoriali.
Per poter ricostruire il legame causale occorre tener conto di qualsiasi fattore professionale (anche indiretto, anche remoto o di minore spessore) che abbia cooperato alla produzione dell’evento nel senso che abbia contribuito in concreto a creare nel soggetto una situazione tale da favorire l’azione dannosa di fattori diversi o ad aggravarne gli effetti.
Ovviamente – poiché si discorre dell’intervento di una molteplicità di fattori causali concorrenti – la sussistenza della relazione causale non può essere affermata sulla base della personale valutazione del giudice e nemmeno di un Ctu, ma deve essere supportata da un giudizio di affidabilità della stessa comunità scientifica e dalla corretta valutazione delle circostanze del caso concreto.
E necessita quindi di una concreta e specifica dimostrazione, quanto meno in via di alta probabilità logica.
Attenzione, questa affidabilità logica (badate non puramente scientifica, statistica epidemiologica) si può ottenere – e allora il modello di accertamento del nesso di causa resisterà al vaglio del controllo di legittimità che si opera in Cassazione – quando il giudizio sul nesso causale è stato correttamente fondato su un duplice livello di accertamento: dell’identificazione legge causale di copertura (scientifica, generale, epidemiologica, statistica) e del confronto con le circostanze individualizzanti del caso concreto, allo scopo di escludere l’intervento di fattori alternativi.
In questi casi, la eziopatogenesi di una malattia può risalire, in tesi, a diversi fattori causali (ereditari, alimentari, ambientali, occupazionali) come accade oramai in quasi tutte le malattie; ma comunque il nesso causale con l’attività professionale può essere lo stesso identificato, anche dinanzi all’eventuale intreccio dei fattori causali, quando essi sono fattori tutti concorrenti secondo un giudizio di alta probabilità logica. Il Ctu (e il Giudice,poi) devono solo procedere agli accertamenti del caso rispettando i criteri indicati dalla giurisprudenza (Cass. SU penali 30328/2002 e Cass. SU civili 581/2008).
In particolare nella notissima sentenza Franzese che ha rifiutato un approccio rigidamente deterministico (o statistico) al tema causale (non è indispensabile che si raggiunga sempre la certezza assoluta, una connessione immancabile, tra i due termini) ammettendo una relazione di tipo probabilistico. Questa probabilità logica si raggiunge appunto procedendo con l’indagine causale sui due livelli diversi: confrontando le informazioni rilevanti sul piano della causalità generale (la c.d. legge scientifica o di copertura) con le specifiche emergenze relative al caso individuale, perché si possa restringere lo spettro delle possibili cause alternative.
Ottenute le informazioni rilevanti sui due piani (generale-individuale), si passa infine alla prova di resistenza attraverso l’impiego del c.d. giudizio controfattuale: nel caso dell’illecito a condotta attiva si elimina mentalmente la condotta incriminata, e nel caso del reato omissivo si ipotizza invece come avvenuta la condotta doverosa omessa; e si verifica così se l’evento venga meno oppure no, e in caso positivo si può concludere per l’esistenza del nesso di causalità.
Nel caso del tumore al colon su cui aveva giudicato la sentenza della Cassazione n. 10430/2017, era proprio quello che risultava aver effettuato la Ctu posta a fondamento della decisione di merito. La quale aveva anzitutto dato atto dell’esistenza di una nutrita letteratura medica che riconosce il nesso causale tra l’esposizione ad amianto e il tumore al colo, citando studi e DM che prevedono lo stesso rapporto causale come possibile (attualmente di limitata probabilità).
La Ctu aveva poi tenuto conto della sensibilità dello specifico soggetto; e inoltre degli elementi topografico, cronologico, di efficienza lesiva e di esclusione di altra causa. Dinanzi a un ragionamento così articolato la sentenza di merito veniva confermata dalla Suprema Corte in quanto coerente con i princìpi di equivalenza delle condizioni e di alta probabilità logica rispetto al singolo caso concreto.
Identico orientamento giurisprudenziale si rinviene anche nelle successive Sentenze della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n° 3975 del 19 febbraio 2018 e n° 7313 del 14 marzo 2019- che si deposita)
Pertanto, considerando l’assenza di fattori genetici e/o personali di rischio autonomi (non emersi né rilevati da controparte o dal CTU), la bozza di consulenza omette del tutto di considerare il ruolo rilevante della esposizione alle fibre di amianto nell’ambito di un concorso sinergico di cause efficienti.
E’ indubitabile che il tumore al colon è una malattia a genesi multifattoriale. Questo vuol significare che possono essere diverse le cause del tumore al colon e che spesso possono agire sinergicamente fra loro.
Tra i fattori di rischio per insorgenza di tumore al colon ci sono familiarità, ereditarietà, malattie infiammatorie intestinali come infiammazione cronica dell’intestino crasso, colite ulcerosa e morbo di Crohn, presenza di polipi adenomatosi lungo il tratto colon-retto, età, stile di vita poco sano (dieta errata, obesità, eccessivo consumo di alcol, fumo di sigaretta e sedentarietà) -circostanze ma anche agenti eziologici quali l’amianto e gli idrocarburi policiclici aromatici.
Quest’ultimo aspetto è stato rappresentato anche dallo IARC (Agenzia Internazionale di ricerca sul Cancro) facente capo all’OMS che nell’ultima monografia relativa ai protocolli di classificazione degli agenti cancerogeni per l’uomo intravede la probabilità che l’amianto possa essere qualificato come fattore di rischio tumore del colon.
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