Come definito all’interno delle guide dell’Istituto Superiore di Sanità le infezioni nosocomiali sono una delle complicazioni più frequenti e gravi dell’assistenza sanitaria.

Vengono definite così le infezioni che si presentano durante o dopo il ricovero di una persona in ospedale e che non erano presenti o in incubazione al momento dell’ingresso in ospedale.

Le cause di un’infezione ospedaliera sono molteplici:

interventi chirurgici;

utilizzo prolungato di dispositivi medici invasivi;

indebolimento del sistema di difesa dell’organismo (immunosoppressione) e presenza di gravi malattie di base;

eccessivo utilizzo di antibiotici;

scarsa applicazione di misure di igiene ambientale;

scarsa prevenzione e controllo delle infezioni.

 

I principali fattori di rischio sono ovviamente legati alla durata delle degenza ospedaliera, oltre che alla presenza di altre malattie che abbassano le difese immunitarie (tumori, immunodeficienze, diabete, anemie, cardiopatie, insufficienza renale e trapianti d’organo) e esposizione a particolari tecniche assistenziali invasive e/o complesse (cateterismo, endoscopie, interventi chirurgici).

 

Sempre l’Istituto Superiore di Sanità fornisce dei dati allarmanti.

Il Ministero della Salute stima infatti che in Italia ogni anno dalle 450.000 alle 700.000 persone ricoverate vanno incontro a un’infezione ospedaliera.

Di queste, sempre secondo le stime, più del 50% potrebbero essere prevenute.

Le infezioni più frequenti sono quelle respiratorie, soprattutto polmoniti, seguite dalle infezioni urinarie, chirurgiche e del sangue.

In Europa, le Infezioni correlate all’assistenza (ICA) provocano ogni anno:

  • 16 milioni di giornate aggiuntive di degenza
  • 37.000 decessi attribuibili
  • 110.000 decessi per i quali l’infezione rappresenta una concausa.

I costi vengono stimati in approssimativamente 7 miliardi di Euro, includendo solo i costi diretti.

Risarcimento danni per infezioni ospedaliere: in che cosa consiste una infezione ospedaliera

Prima di comprendere come è possibile richiedere ed ottenere un risarcimento danni per infezioni ospedaliere (le quali rientrano nella categoria della malasanità), è fondamentale comprendere che cosa è una infezione ospedaliera. Per definire una infezione ospedaliera, si può dire che è una infezione assente all’ingresso del paziente nell’ambiente di ricovero o di assistenza, che non deve essere obbligatoriamente e strettamente ospedaliero, e i cui sintomi iniziano a manifestarsi a partire dal terzo giorno in poi. Riferendoci ad un ambiente non strettamente ospedaliero, intendiamo dire che i possibili luoghi e le possibili fonti in e da cui è possibile che si verifichi una infezione ospedaliera sono i seguenti:

  • le strutture sanitarie in generale;
  • flussi d’acqua o i sistemi di ventilazione;
  • l’igiene della persona;
  • la pulizia dell’ambiente;
  • l’utilizzo scorretto di antibiotici.

Inoltre, va anche detto che il rischio di contrarre una infezione ospedaliera non fa capo solo ai pazienti, ma anche al personale medico e sanitario, agli assistenti, ai visitatori e a eventuali tirocinanti. In questo senso, è determinante individuare quelli che sono i principali fattori di rischio, che sono i seguenti:

  • l’età, per cui principalmente vengono colpiti i neonati o gli anziani;
  • la malnutrizione;
  • eventuali traumi;
  • la presenza di altre infezioni più o meno gravi.

 

Gli errori medici che possono implicare la responsabilità medica sono molteplici e possono variare in base alle circostanze specifiche di ciascun caso. Tuttavia, alcuni degli errori più comuni che possono portare a una potenziale responsabilità medica includono:

  • diagnosi errate o tardive
  • errori nella somministrazione di farmaci
  • negligenza nell’assistenza sanitaria
  • chirurgie errate o eseguite in modo improprio
  • mancata informazione al paziente sui rischi e sulle alternative di trattamento
  • mancanza di consenso informato
  • utilizzo di strumenti o attrezzature difettose o mal funzionanti
  • infettivologi ospedalieri

Lo status di vittima del dovere è imprescrittibile, ai sensi dell’art. 2934 c.c., in relazione agli artt. 2 e 38 Cost. Infatti, Cassazione, Sezione Lavoro, 17440/2022, ha sancito l’imprescrittibilità del diritto allo status di vittima del dovere.

Da ultimo, l’ordinanza n.3868 del 2023 ha espressamente affermato:

la condizione di vittima del dovere, tipizzata dall’art. 1, commi 563 e 564, della 1. n. 266 del 2005, ha natura di status, cui consegue l’imprescrittibilità dell’azione volta al suo accertamento, ma non dei benefici economici che in tale status trovano il loro presupposto, quali i ratei delle prestazioni assistenziali previste dalla legge» (Cass. n. 17440 del 2022).

 

Nel contenzioso promosso dalle vittime del dovere per la declaratoria dello status di vittima del dovere e per conseguire le provvidenze economiche per legge previste, le Amministrazione interessate avanzano sempre l’eccezione di prescrizione del diritto azionato, rilevando che è spirato il termine decennale di cui all’art. 2946 c.c., in combinato disposto con gli artt. 2934 e 2935 c.c., con riferimento alla data di entrata in vigore L. n. 302/1990, della L. n. 388/2000 e della L. n. 266/2005, in quanto  la parte ricorrente non ha prodotto alcun valido atto interruttivo.

Il giudice della nomofilachia ha riconosciuto che l’azione volta all’accertamento del diritto al riconoscimento dello status della condizione di “vittima del dovere” deve essere considerato imprescrittibile: «non può essere dubbio che le provvidenze in esame rientrino nell’ambito della tutela di cui all’art. 38 Cost.: la disposizione costituzionale ult. cit., nel riferirsi all’idea di “sicurezza sociale” e nell’ipotizzare soltanto due modelli tipici della medesima, uno dei quali fondato unicamente sul principio di solidarietà (primo comma) e l’altro suscettibile di essere realizzato mediante strumenti mutualistico-assicurativi (secondo comma), “non esclude tuttavia, e tantomeno impedisce, che il legislatore ordinario delinei figure speciali nel pieno rispetto dei principi costituzionalmente accolti” (così, testualmente, Corte Cost. n. 31 del 1986).

E se è vero che la disciplina delle provvidenze dettate per le vittime del dovere può legittimamente considerarsi come una delle possibili “figure speciali di sicurezza sociale”, la cui ratio va individuata nell’apprestare peculiari ed ulteriori forme di assistenza per coloro che siano rimasti vittima dell’adempimento di un dovere svolto nell’interesse della collettività, che li abbia esposti ad uno speciale pericolo e all’assunzione di rischi qualificati rispetto a quelli in cui può incorrere la restante platea dei dipendenti pubblici o degli incaricati di un pubblico servizio (così Cass. 29204 del 2021), non si possono non ravvisare nella situazione giuridica istituita dal legislatore tutti i presupposti dello status, nello specifico senso di cui dianzi sì è detto: valendo la categoria di “vittima del dovere” a differenziare una particolare categoria di soggetti al fine di apprestare loro un insieme di benefici previsti dalla legge e riepilogati dall’art. 4 d.P.R. n. 243/2006. L’imprescrittibilità della pretesa discende ex sé dalla riconosciuta natura di status della condizione di vittima del dovere e non già da una inesistente facoltà dell’amministrazione di attribuirla d’ufficio.

Tale principio, come detto, è stato confermato dalla giurisprudenza della Corte di legittimità laddove ha precisato che «la questione concernente la possibilità di intendere la qualifica di vittima del dovere in termini di status è stata di recente affrontata da questa Corte, con la pronuncia n. 17440 del 2022, affermativa del principio per cui “la condizione di vittima del dovere, tipizzata dalla L. n. 266 del 2005, art. 1 commi 563 e 564, ha natura di status, cui consegue l’imprescrittibilità dell’azione volta al suo accertamento, ma non dei benefici economici che in tale status trovano il loro presupposto, quali i ratei delle prestazioni assistenziali previste dalla legge.

Ordinanza n. 3868-2023

Si tratta di un argomento più volte studiato, con risultati, tuttavia, non conclusivi, in quanto l’evidenza del ruolo cancerogeno dell’amianto in tali patologie è tuttora piuttosto limitata.

Attualmente, per quanto riguarda il rapporto tra “Tumore del colon retto” e amianto, risulta che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, in occasione di un ultimo aggiornamento dell’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti dell’articolo 139 del Testo Unico (approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124), ha inserito la suddetta patologia oncologica nella “Lista II” (Gruppo 6 Voce 3), quella delle malattie la cui origine lavorativa è di limitata probabilità.

 Pertanto, sulla base delle conoscenze attualmente disponibili, non è possibile stabilire con certezza un’associazione causale tra l’esposizione all’amianto e cancro del colon-retto.

La monografia 100/C della IARC  (Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro), il più importante organismo internazionale nel campo dei tumori, a conclusione di una sessione dedicata alle patologie amianto correlate, tenutasi circa 8 anni fa tra il 17 – 24 marzo 2009 ha concluso affermando che l’attività cancerogena delle fibre di amianto doveva essere classificata come 2A raggruppamento indicativo di un criterio di probabilità.

È comunque rilevante notare quanto nelle conclusioni afferma il Gruppo di Esperti della IARC relativamente al cancro del colon/retto.

Associazioni positive sono state anche riscontrate tra la esposizione a tutte le forme di asbesto ed il cancro della faringe, stomaco, e con/retto. Per il cancro del colon/retto, il Gruppo di Lavoro era (evenly divided) uniformemente diviso nel giudizio se la evidenza fosse così forte da attribuire la classificazione come sufficiente.

Quindi già nel 2009 la evidenza di un’azione cancerogena certa era prospettata dalla metà dei membri del Grippo di Lavoro, ma non raggiunse la maggioranza dei partecipanti, per cui l’amianto venne classificato come cancerogeno 2A per il cancro del Colon/Retto.

Quanto all’ultimo aggiornamento dell’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia ai sensi e per gli effetti dell’articolo 139 del Testo Unico (approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124), esso non potuto tenere conto dell’aggiornamento della valutazione della IARC (che ha ritenuto probabile l’attività cancerogena delle fibre di amianto), dal momento che i dati della IARC sono stati resi pubblici solo nel 2012 con la pubblicazione della Monografia 100/C.

Pertanto tale Decreto Ministeriale appare fortemente datato, in quanto ha inserito la suddetta patologia oncologica nella “Lista III” (Gruppo 6 Voce 3), quella delle malattie la cui origine lavorativa è possibile.

Appare invece di tutto rilievo fare riferimento a quanto recentemente nella letteratura internazionale è stato prodotto in tema di cancerogenesi da amianto per i tumori del colon.

Segnaliamo quindi il lavoro decisivo pubblicato nel 2016 da un gruppo di ricercatori francesi che si segnala per la sua ampiezza (la coorte esaminata consta di ben 14.515 lavoratori ex esposti ad amianto) e per la sua attenzione mirata esclusivamente ai tumori del colon, separando quindi la precedente classificazione che riuniva in un sol gruppo i tumori del colon e del retto.

Il lavoro su menzionato nasce esplicitamente dalla necessità posta dagli Autori di approfondire le controverse conclusioni del Gruppo di Lavoro della IARC e forniscono elementi rilevanti basati esplicitamente sulla valutazione differenziata della cancerogenesi da esposizione a fibre di amianto nei riguardi separatamente del colon e del retto.

Separando per la prima volta questi due distretti dell’organismo, i ricercatori hanno stabilito che mentre per il colon il nesso di causalità appare certo, tale rilievo non appare confermato per il cancro del retto.