Un lavoratore aveva prestato attività lavorativa alle dipendenze della S.p.A. ENEL con contribuzione versata al Fondo Elettrici per 32 anni e, successivamente aveva svolto l’attività di bracciante agricolo con contribuzione versata al FPLD per anni 11 anni.

Sussistendo i requisiti anagrafici e contributivi, presentava all’INPS domanda di conseguimento di pensione di vecchiaia in cumulo, evidenziando la richiesta di pensione in cumulo era finalizzata a utilizzare periodi contributivi non coincidenti maturati in più gestioni al fine del conseguimento di un’unica pensione di vecchiaia.

A seguito della reiezione da parte dell’INPS, proponeva azione giudiziaria.

Nella fattispecie rilevava che l’articolo 1, co. 195 della legge 232/2016 (legge di bilancio per il 2017) aveva rivisto in senso estensivo a partire dal 1° gennaio 2017 il perimetro di applicazione del cumulo dei periodi assicurativi già introdotto dall’articolo, 1, comma 239 della legge 228/2012 dal 1° gennaio 2013.

Il cumulo è un meccanismo particolare, in aggiunta alla ricongiunzione e alla totalizzazione, per valorizzare la contribuzione mista, ovvero quella contribuzione accreditata in più casse della previdenza obbligatoria frutto di carriere lavorative discontinue. La norma citata consente al lavoratore la possibilità di cumulare i periodi assicurativi accreditati presso differenti gestioni, senza oneri a suo carico, per il riconoscimento di un’unica pensione da liquidarsi secondo le regole di calcolo previste da ciascun fondo e sulla base delle rispettive retribuzioni di riferimento.

Dunque, a differenza della ricongiunzione, il cumulo non opera alcun trasferimento della contribuzione da una gestione previdenziale all’altra.

Pertanto, secondo la normativa richiamata, dal 1° gennaio 2017 il cumulo contributivo è esercitabile dai lavoratori iscritti a due o più forme di assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti dei lavoratori dipendenti, autonomi (commercianti, artigiani, coltivatori diretti e mezzadri) e dagli iscritti alle forme sostitutive ed esclusive della medesima (ex Inpdap, ex Enpals, Fondo Volo, Fondo ElettriciFondo Telefonici eccetera) .

Al pari della totalizzazione nazionale, il cumulo deve interessare tutti e per intero i periodi contributivi non coincidenti accreditati presso le diverse gestioni assicurative menzionate; inoltre è necessario che gli assicurati non risultino già titolari di un trattamento pensionistico diretto in una delle gestioni interessate dal cumulo stesso.

Dal 1° gennaio 2017, per effetto delle modifiche apportate dalla legge di bilancio 2017 il cumulo è ammesso anche qualora gli interessati abbiano perfezionato i requisiti per il diritto a un trattamento pensionistico autonomo in una delle casse coinvolte nel cumulo (cfr: Circolare Inps 60/2017).

L’importo della pensione è determinato dalla somma dei pro-quota, tante quante saranno le gestioni interessate: ciascuna determinerà il trattamento in rapporto ai rispettivi periodi di iscrizione maturati, secondo le regole di calcolo previste da ciascun ordinamento e sulla base delle rispettive retribuzioni. Ciò significa che, a differenza della totalizzazione, la pensione verrà liquidata con il sistema retributivo ove applicabile, fermo restando, in ogni caso, che, per i periodi successivi al 1° gennaio 2012, dovrà essere utilizzato solo il sistema contributivo.

Pertanto, diversamente da quanto operato dall’INPS, l’operazione di calcolo del trattamento pensionistico si atteggerà diversamente a seconda della prestazione richiesta. Nel caso del lavoratore in questione, siccome il cumulo era  finalizzato alla pensione di vecchiaia, l’operazione si configura a formazione progressiva, per cui, ai fini del diritto alla pensione di vecchiaia in cumulo, si potranno utilizzare tutti i periodi assicurativi accreditati presso le gestioni coinvolte nel cumulo. Ai fini della misura, la liquidazione del trattamento pro quota in rapporto ai rispettivi periodi di iscrizione maturati, secondo le regole di calcolo previste da ciascun ordinamento e sulla base delle rispettive retribuzioni di riferimento, avverrà solo al conseguimento dei rispettivi requisiti anagrafici e contributivi.

Con la sentenza che si allega, il Tribunale di Napoli Nord accoglieva il ricorso.SENTENZA CUMULO DEI PERIODI ASSICURATIVI

 

TRIBUNALE DI NAPOLI III SEZIONE LAVORO

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Giudice di Napoli in funzione di Giudice del lavoro dott. Paolo Coppola all’ udienza del  , ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa n.           R.G. tra

XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX

nato a Napoli    rapp.ti e difesi dall’avv. Francesco Gentile in virtù di procura

apposta in atti                                                                                     RICORRENTE

contro

Enel S.p.a., ed Enel Produzione S.p.a., in persona dei l.r.p.t., con sede in Roma, rapp.te e difese dagli avv.   giusta procura in atti   RESISTENTE  E

Tirreno Power S.p.a., in persona del l.r.p.t., con sede in Roma, rapp.ta e difesa dagli avv.  giusta procura in atti

RESISTENTE

Nonché

GENERALI ITALIA S.p.A. e UNIPOL SAI Assicurazioni S.p.A., in persona dei l.r.p.t., rapp.te e difese dall’avv.  giusta procura in atti  TERZO CHIAMATO E

Allianz S.p.a., in persona del l.r.p.t., con sede in Trieste, rapp.ta e difesa dall’avv.

giusta procura in atti                                                                           TERZO CHIAMATO

OGGETTO: danno biologico.

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISONE

Con ricorso depositato il 4.2.14              conveniva in giudizio l’ Enel S.p.a. l’Enel Produzione S.p.a. e la Tirreno Power S.p.a. al fine di sentire pronunciare, previo accertamento del nesso eziologico tra le patologie di cui lo stesso era portatore e gli ambienti di lavoro nonché le mansioni cui lo stesso è stato addetto, sentenza di condanna nei confronti delle Società convenute, in solido ovvero ciascuna per quanto di proprio onere e/o responsabilità, al risarcimento del danno non patrimoniale (suddiviso in danno biologico, danno biologico da inabilità temporanea, danno morale e danno esistenziale), per complessivi €. 1.065.732,30 o nella diversa misura di giustizia, oltre interessi e rivalutazione monetaria, detratto l’indennizzo del danno biologico già corrisposto da INAIL, il tutto con vittoria spese distratte. Al fine esponeva di aver lavorato per l’Enel, poi Enel produzione, dal 6.7.64, poi all’ottobre 1999 per la Tirreno Power, già Interpower, fino al 31.12.99 (indicava in ricorso mansioni e centrali elettriche dove aveva lavorato) e descriveva luoghi e macchinari coibentati con amianto, nonché la attività in concreto svolta. Allegava che l’esposizione ad asbesto gli aveva causato una neoplasia epiteliale maligna con aspetti prevalenti squamosi di tipo primitivo, diagnosticato il 12.5.10 ed ossigenoterapia per più di 10 ore al giorno, dal giugno 2012 e cicli di chemio e radio terapia e di avere ottenuto il riconoscimento della malattia professionale con postumi quantificati nella misura dell’80%.

Le convenute Enel ed Enel Produzione S.p.a. si costituivano in giudizio con memoria depositata in data 4.4.14 con la quale eccepivano il proprio difetto di legittimazione passiva sulla scorta dell’art 10 dell’atto dell’1.10.99, di costituzione, con conferimento impianti alla Interpower (poi divenuta Tirreno Power), tra cui la centrale di Napoli Levante, dove era addetto l’istante, che prevedeva che restava a carico di Interpower il contenzioso dei dipendenti in servizio presso il ramo di azienda conferito o cessati dal servizio. Rilevavano la impossibilità a prendere posizione in ordine alle domande, posto che si era spogliata, in favore della Interpower (poi Tirreno Power), di tutta la documentazione, ed in ogni caso chiedevano il rigetto della domanda. In subordine istavano perché la Tirreno Power volesse manlevarle per le somme che fossero state condannate a pagare all’istante.

La Tirreno Power si costituiva in giudizio con memoria depositata in data 4.4.14, con la quale resisteva alle opposte pretese eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva, posto che l’istante aveva lavorato alle dipendenze di Interpower, poi Tirreno Power, per i soli ultimi 3 mesi del rapporto di lavoro (ottobre/dicembre 1999) e che la predetta era si era fusa in Volt S.p.a. che solo successivamente aveva cambiato denominazione di Tirreno Power. Eccepiva altresì l’esonero di responsabilità ex art 13 DLgs 38/00 e 10 del Dpr 1124/65, con conseguente difetto di legittimazione, nonché la sussistenza di qualsivoglia responsabilità a proprio carico ed, in ogni caso, la necessaria decurtazione di quanto corrisposto dall’INAIL. Istava per la chiamata in causa della s.p.a. Assicurazioni Generali, nonché delle 6 coassicuratrici, con richiesta di manleva. Chiamate in causa le assicuratrici, si costituiva in giudizio la Allianz S.p.a. con memoria depositata in data 8.7.14, quale coassicuratrice (con quota dell’8%) unitamente a Società Generali Italia ed UnipolSAI con la quale eccepiva e deduceva di avere incorporato le società  R.A.S. ed U.S.A., contestando la legittimazione passiva della Tirreno Power, visto il limitato spazio temporale (1.10.99/31.12.99), l’esonero di responsabilità, operando la copertura INAIL, l’assenza di pericolo di contagio da polveri sottili.

Si costituivano in giudizio, con memoria depositata in data 26.6.14 Generali Italia S.p.a. (già INA Assitalia) e la Unipol Sai Assicurazioni S.p.a. (quale incorporante la Unipol Assicurazioni),  contestando la operatività della polizza in ragione della legittimazione della Tirreno Power, nonché titolarità e regolarità amministrativa della polizza attraverso il pagamento di un premio proporzionato al rischio garantito e riferito al periodo dell’evento dannoso nonché alla sua riferibilità alle previsioni garantite dalla polizza (Tirreno Power aveva prodotto una polizza riferita al periodo 31.12.99/30.6.00, la prescrizione della garanzia assicurativa ex art 2952 c.c., la necessità di limitare il rischio delle coassicuratrici pro quota (64% Generali e 23% Unipol Sai), la assenza di responsabilità a carico della assicurata, l’esonero di responsabilità stante la copertura INAIL e la assenza di correlazione tra patologia e condizioni di lavoro.

Deceduto l’istante, si costituivano in giudizio in data 21.12.16 gli epigrafati unici eredi. Escussi i testi ed espletate CTU, questo giudice alla udienza dell’8.5.18 pronunciava sentenza cui veniva data lettura in udienza.

*****

Preliminarmente un accordo interno tra Enel S.p.a. ed Interpower (poi Tirreno Power, quale atto inter alios, non ha alcun effetto verso i diritti che l’istante può vantare verso Enel ed Enel Produzione. Infatto un atto intr alios non può incidere lnella sfera giuridica del soggetto terzo rispetto ad esso con eccezione della ipotesi di contratto a favore di terzo che, evidentemente, non ricorre.

Peraltro l’art 10 dell’atto dell’1.10.99, di costituzione, con conferimento impianti, da parte di Enel S.p.a. alla Interpower (poi divenuta Tirreno Power), tra cui la centrale di Napoli Levante, dove era addetto l’istante, che prevedeva che restava a carico di Interpower il contenzioso dei dipendenti in servizio presso il ramo di azienda conferito o cessati dal servizio è contratto che non risulta subordinato alla cessione di quote della Interpower a soggetti terzi, essendo sconosciuto al giudicante il disposto normativo che vorrebbe tale subordinazione. Successivamente Interpower ha cambiato la (sola) denominazione in Tirreno Power.

Ne deriva che ciascuna delle due risponde in via diretta in relazione ai diversi periodi di lavoro e Tirreno Power deve manlevare Enel S.p.a. in relazione ai danni causati dal periodo di lavoro per la stessa, ai sensi del predetto art. 10.

Immediatamente deve essere rigettata la domanda verso Enel Produzione S.p.a., posto che l’istante mai ha lavorato per la stessa e che neppure è dedotto che vi sia un debito verso l’istante iscritto in bilancio.

L’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile per infortunio sul lavoro o malattia professionale opera esclusivamente nei limiti posti dall’art. 10 del d.P.R. n.1124 del 1965 e per i soli eventi coperti dall’assicurazione obbligatoria, mentre qualora eventi lesivi eccedenti tale copertura abbiano comunque a verificarsi in pregiudizio del lavoratore e siano causalmente ricollegabili alla nocività dell’ambiente di lavoro, viene in rilievo l’art. 2087 cod. civ., che, come norma di chiusura del sistema antinfortunistico, impone al datore di lavoro, anche dove faccia difetto una specifica misura preventiva, di adottare comunque le misure generiche di prudenza e diligenza, nonché tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore assicurato. Ne deriva che anche ove sussista dolo o colpa del datore di lavoro nella causazione di un danno alla integrità psico fisica (fatto di reato) non opera la copertura anti infortunistica integrale, ma solo nei limiti del danno già liquidato: viene in rilievo quindi il c.d. danno differenziale.

Per la verifica dell’ambiente e delle modalità di lavoro, nonché delle misure di prevenzione adottate, soccorre la prova testimoniale.

Il teste         , collega di lavoro dell’istante, che ha lavorato presso la centrale di cui è causa dal 1955 al marzo 2000 come capoturno, ha riferito che l’istante era operatore di giro, ovvero effettuava giri di ispezione del gruppo termoelettrico, su richiesta ispezionava apparecchiature e metteva in esercizio apparecchiature su richiesta dell’operatore di banco. Successivamente lo stesso era diventato operatore di banco,, ovvero verificava al banco il regolare andamento del porocesso di produzione della energia della unità cui era addetto. Il teste ha riferito che tuibazioni ed apparecchiature soggette a calore erano coibentate con amianto. Ha riferito che capitava che tuibi si rompessero e così acqua o vapore rompessero la copertura in amianto, aerodisperdendo fibre.  Per la verifica dei punti di perdita dell’impianto, l’istante doveva rimuovere l’amianto con mezzi di fortuna. L’istante verificava la regolarità degli interventi di manutenzione. Ha ricordato che in sala quadro vi era un aeratore+, di solito funzionante.

Il teste   , capo esercizio, poi vice capo centrale ed infine capo centrale, della

Centrale di cui è causa, ha riferito che l’amianto rivestiva principalmente tubi, turbine e generatore di vapore. Ha ricordato che la rottura di tubazioni era molto rara e che il coibento era rimosso da ditte specializzate, reincapsulandolo e che il ricorrente a detti interventi non era presente. Ha riferito che l’istante controllava da banco il regolare funzionamento delle apparecchiature e coordinava il personale che si recava a verificare esternamente i macchinari impiegati; prima che il teste andasse a lavorare presso la centrale di cui è causa l’istante aveva svolto mansioni di operatore di giro ed operatore di unità.

Il teste   collega di lavoro presso la centrale di cui è causa dal 1982/83 al 1993, ha riferito che l’istante era operatore di giro, ovvero controllava, sia in ambiente interno che esterno, de visu, il funzionamento di apparecchiature e macchinari e, se vi erano perdite, doveva rimuovere la copertura che, per tubazioni e valvoline, erano in amianto, al fine di accertare l’esatto punto di perdita. La rimozione avveniva con uso di una grossa chiave, utilizzata anche per rompere il coibento. Tale intervento era effettuato in media una due volte a settimana. Ha riferito che l’istante verificava e sostituiva bruciatori nelle caldaie, aprendo le porte di ispezione delle stesse, dove vi erano coibentazioni rotte, sfrangiare, sfaldate, come in varie parti della centrale. Ha ricordato che quando parte dell’impianto veniva riavviata, reimmesso il vapore ad alta temperatura e pressione, le tubazioni vibravano violentemente e dai punti di giunzione o dalla parte dei coibenti cadeva una polverina. Ha riferito che nel 1991/92 gli erano state fornite cuffie e mascherine con invito ad usarle.

Il teste       , dal 1987  responsabile della manutenzione delle centrali di Napoli, quindi responsabile di esecizio della ventrale di cui è causa dal 1998 e dal 2000 capo centrale, ha riferito che le mascherine per l’amianto erano state disponibili dal 1990 e dagli anni ’90 il medico aziendale aveva tenuto corsi agli operai su amianto e rischi, spiegando l’uso degli appositi DPI.

Ha riferito che la rimozione dell’amianto era finita nel 1992/93, che le tubazioni contenenti amianto erano state pitturate in rosso, che un censimento delle coibentazioni era stato effettuato nel 1988, che scoibentazione e coibentazione  veniva effettuata da ditte specializzate.

È provato in atti, dalla scheda relativa alla attività di rimozione coibenti a base di amianto (in atti istante) che l’amianto era in rimozione dal 1983, trovando i propri picchi dal 1992 al 1997 e proseguendo fino al 2004. Ne deriva che le dichiarazioni del teste Nittolo sono il frutto di un cattivissimo ricordo e lo stesso, pertanto, risulta inattendibile.

Dall’1.6.74 all’1.6.84, periodo in cui è stato operatore a giro presso la centrale di cui è causa, come da curriculum lavorativo (in atti ricorrente), l’istante è stato certamente esposto in maniera massiva e non protetta a fibre di amianto per come risulta dalla circostanza che cuffie e mascherine erano state fornite dal 1991/92 e che questo, quale operatore a giro, doveva controllare, sia in ambiente interno che esterno, de visu, il funzionamento di apparecchiature e macchinari ed, una/due volte a settimana, causa perdite rimuoveva la copertura che, per tubazioni e valvoline, era in amianto rompendo il coibento con una grossa chiave, e, dunque, aerodisperdendo ed inalando fibre. La presenza di polvere di amianto era così massiva che, quando parte dell’impianto veniva riavviata, reimmesso il vapore ad alta temperatura e pressione, le tubazioni vibravano violentemente e dai punti di giunzione o dalla parte dei coibenti cadeva una polverina.

La dipendenza della patologia da amianto è anche stata riconosciuta dall’INAIL con provvedimento del 20.11.13.

Di contro l’attività lavorativa del           nei locali della sala quadri nel periodo ottobre/dicembre 1999, quindi senza o con scarsissima esposizione ad amianto né ad altri possibili cancerogeni esclude la responsabilità diretta di Tirreno Power (cfr prima CTU depositata il

18.12.16, pag 9).

Quanto alla responsabilità colposa, il CTU ha evidenziato che Il 1964 dunque per l?amianto deve essere considerato un anno terribilis essendo ormai divenute note nella comunità scientifica le informazioni essenziali sugli ampi e gravi effetti dell?mianto (prima CTU pag 27). Da un punto di vista normativo le direttive comunitarie 80/1107/CEE, 82/605/CEE, 83/477/CEE, 86/188/CEE e 88/642/CEE, in tema di utilizzo di amianto, ne evidenziavano la pericolosità. Ne deriva dunque che la convenuta ENEL quantomeno doveva sapere detta pericolosità e che, dunque, risulta violata una regola di diligenza, prevista dall’art 2087 c.c., applicabile ratione temporis e dovuta da un imprenditore delle dimensioni della convenuta ENEL, in grado di conoscere ed applicare le regole scientifiche dell’epoca nella prevenzione delle patologie asbesto correlate, che rende configurabile il reato di lesioni personali colpose. Ne deriva la risarcibilità del danno differenziale e la inoperatività della regola di esonero da responsabilità.

Deve a questo punto rilevarsi come dalla L. 455/43 (art 4: Agli effetti della presente legge per asbestosi deve intendersi una fibrosi polmonare che, provocata da inalazione di polvere di amianto, si manifesta particolarmente con presenza negli alveoli, nei bronchioli e nel connettivo interstiziale di “corpuscoli dell’asbestosi” con tracheo-bronchite ed enfisema, ed all’esame radiologico con velatura del campo polmonare o con striature od intrecci reticolari più o meno intensi, maggiormente diffusi alle basi) è provata la conoscenza della pericolosità dell’amianto quale causa atta a determinare la patologia di cui è causa. Peraltro nella stessa tabella finale (Tabella delle lavorazioni per le quali è obbligatoria l’assicurazione – contro la silicosi e l’asbestosi e del periodo massimo d’indennizzabilità – della cessazione del lavoro, sostituita dall’art. 1 del D.P.R. 20 marzo 1956, n. 648)  si indicava  tra le attività soggette ad assicurazione obbligatoria lavori che comportano impiego ed applicazione di amianto e di materiali che lo contengono o che comunque espongono ad inalazione di polvere di amianto.

Ne deriva che la mancata adozione di tutte le misure cautelative adottabili all’epoca dei fatti avrebbe ridotto il rischio di inalazione della dose innescante. Peraltro solo dal 1991/92 sono state adottate mascherine apposite per la prevenzione del rischio asbesto correlato.

Ne deriva che il danno alla salute esitato è ascrivibile a responsabilità della convenuta.

Infatti l’eventuale efficienza causale di altri fattori cancerogeni, quali l’abitudine al fumo di sigarette, la quale tuttavia, di regola, non rileva, di per sé, al fine dell’interruzione del nesso causale (Cass. Sez. L, Sentenza n. 18267 del 30/07/2013).

Infatti anche nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali trova applicazione la regola contenuta nell’art. 41 cod. pen., per cui il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell’equivalenza delle condizioni, principio secondo il quale va riconosciuta l’efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, salvo il temperamento previsto nello stesso art. 41 cod. pen., in forza del quale il nesso eziologico è interrotto dalla sopravvenienza di un fattore sufficiente da solo a produrre l’evento, tale da far degradare le cause antecedenti a semplici occasioni. Pertanto, in caso di accertata esposizione al rischio ambientale costituito dalle polveri, in soggetto dedito ad attività ispettiva con prelievi di polvere di amianto, di piombo ed altro, è legittimo il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio, senza che rilevi in contrario la circostanza che la consulenza tecnica abbia evidenziato il tabagismo del dipendente quale concausa della patologia (Cass. Sez. L, Sentenza n. 17959 del 09/09/2005). Ne deriva che il tabagismo dell’istante è al massimo concausale. Sul punto, peraltro, il secondo CTU ha evidenziato quanto segue:

Nel caso specifico, si evince che il sig.   fosse effettivamente un tabagista, ma vi sono pochi elementi per quantificare l’entità di tale abitudine voluttuaria. Gli unici richiami documentali in merito sono: a) il Libretto Individuale Sanitario e di Rischio ENEL, senza data di compilazione, ma certamente compilato non prima del 1993, ove è riportato il consumo di circa 15 sigarette al giorno per 20 anni; b) la cartella clinica osp. Monaldi del 2006, allorquando il         fu ricoverato per IMA, ove in anamnesi è riportato un consumo di circa 10 sigarette al giorno da circa 20 anni.

Altro dato, per una valutazione indiretta dell’abitudine voluttuaria al fumo del sig.   si basa sulla considerazione che egli non risulta sia stato affetto da bronchite cronica, che è la principale patologia secondaria al tabagismo. Infatti, in tal senso, non si riscontrano elementi clinici suggestivi nelle cartelle cliniche avute in visione; viceversa farebbero escludere la sua presenza l’esame spirometrico praticato presso l’osp. Cardarelli in data 22/3/16, refertato con “Deficit ventilatorio di tipo restrittivo”, laddove nei bronchitici cronici il reperto è di un deficit di tipo ostruttivo, ed anche l’anamnesi e l’esame obiettivo rilevati dal precedente CTU in occasione della visita peritale del 24/2/2016.

Infine va considerato che il sig.   che per quanto sopra si valuta che non abbia fumato in assoluto più di 100-120.000 sigarette, contrasse un tumore polmonare non a piccole cellule, in cui la correlazione con il fumo di sigaretta è meno significativa rispetto al microcitoma, che è un tumore a piccole cellule. Infine, non essendo nota, per carenza di dati dosimetrici, l’effettiva aero-dispersione di fibre di amianto nell’ambiente di lavoro del   in base al curriculum lavorativo ed all’estratto contributivo emerge una riconoscibile esposizione al rischio amianto per un lasso di tempo nettamente superiore ai 12-15 anni. 

In sintesi, pertanto, si ritiene di condividere le conclusioni del precedente CTU e si valuta altresì che nell’etiopatogenesi del suddetto tumore polmonare l’incidenza del fumo di sigaretta abbia potuto svolgere una sussidiaria azione concausale, valutando nell’ordine del 20% il grado della sua incidenza.

Dalla patologia tumorale di cui è causa (Adenocarcinoma primitivo squamoso polmonare con metastasi ossee, epatiche, linfonodali e polmonari) è derivato un danno biologico derivante da una serie di postumi permanenti per come evidenziati dal CTU, valutati da questi, in maniera assolutamente logica, nella misura dell’80%.

Il danno deve essere calcolato, tenuto conto della età dell’istante, nato il 28.10.42, e dunque, alla età in cui è stata diagnosticata la patologia (12.5.10) di anni 67  e delle tabelle del Tribunale di Milano del 2018, già aumentate sulla scorta degli indici ISTAT alla attualità e della loro omnicomprensività rispetto alle voci di danno morale, liquidabile trattandosi di fattispecie astratta di reato, ed esistenziale, applicabili in ragione della circostanza che hanno costituito base per la elaborazione normativa (cfr altresì Corte di cassazione, sentenza n.12408/2011), in €. 639.790,00, con importi già rivalutati all’1.1.18.  In esse sono compresi il danno patrimoniale ed il danno biologico nelle sue componenti anche di danno per sofferenza psicologica, tenuto conto che ogni danno biologico determina sofferenze psicologiche, salvo personalizzazioni, eventualmente conseguenti alle particolari sofferenza dovute alla circostanza che l’evento lesivo è stato determinato da fatto di reato. L’istante ha dedotto e provato, in ragione della patologia sofferta che porta inesorabilmente alla morte, nonché alla presenza di 2 figli e tre nipoti, in relazione ai quali vi è una particolare sofferenza psicologica, una particolare sofferenza psicologica, per cui vi è ragione per discostarsi da detta quantificazione, aumentandola nella misura del 20%, con un danno complessivo di €. 767748,00.

Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 38/2000 (9.8.2000) l’Inail corrisponde, per malattia professionale o infortunio, un indennizzo in capitale o una rendita ex art.13 stesso decreto, che copre il danno biologico-lesione all’integrità psico-fisica. Deve ricordarsi come la tutela assicurativa indennitaria non mira all’integrale ristoro del danno subito dal lavoratore, ma assolve ad una funzione di natura previdenziale, costituita dalla esigenza di assicurare al lavoratore colpito dalle conseguente di un infortunio o di una malattia professionale una somma di denaro per far fronte alle esigenze di vita. In detto ambito è compreso anche il danno esistenziale. Quest’ultimo riguarda il  pregiudizio oggettivo, inteso quale modifica della qualità della vita, di scelte e abitudini di vita, di relazioni interpersonali (familiari e non) che deve sostanziarsi in una lesione specifica ed oggettiva della qualità della vita, distinguibile dall’ intrinseco ed inevitabile scadimento correlato alla lesione dell’integrità psico-fisica. La definizione di danno biologico a fini INAIL (danno biologico e dei criteri per la determinazione del relativo risarcimento, il presente articolo definisce, in via sperimentale, ai fini della tutela dell’assicurazione obbligatoria conto gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il danno biologico come la lesione all’integrità psicofisica, suscettibile di valutazione medico legale, della persona) è sovrapponibile a quella di cui all’art 138 del Codice delle assicurazioni (lesione temporanea o permanente all’integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito). D’altro canto non sarebbe possibile la lesione alla integrità psico fisica senza conseguenze sul piano delle scelte e abitudini di vita e delle relazioni interpersonali, nonché senza sofferenze psicologiche connesse, per cui la valutazione non può che essere unitariamente intesa (Cass. SSUU, Sez.  U, Sentenza n.  26972 del 11/11/2008).

Il lavoratore può dunque ottenere dal datore di lavoro  il ristoro del danno differenziale quantitativo. L’istante che ha ottenuto la rendita ex art.13 d.lgs n. 38/2000 dall’Inail per €. 13.508,58 annui, per come risulta dal prospetto di calcolo INAIL del valore capitale della rendita, che ammonta ad €.  94.370,98 per danno patrimoniale ed €. 104.985,98 per danno biologico.

Dall’importo dovuto a titolo di danno biologico va prima detratto l’indennizzo INAIL capitalizzato, che riguarda il danno nel suo complesso, e poi detratta la quota di incidenza del lavoratore.

Ne deriva un danno differenziale di €. 662762,02.

Vi è efficacia concausale del fumo di sigarette ascrivibile al de cuius, come accertato dal CTU, nella misura del 20% perchè va considerato che il sig.   che per quanto sopra si valuta che non abbia fumato in assoluto più di 100-120.000 sigarette, contrasse un tumore polmonare non a piccole cellule, in cui la correlazione con il fumo di sigaretta è meno significativa rispetto al microcitoma, che è un tumore a piccole cellule (cfr seconda CTU pag 4). Dunque detto risarcimento deve essere ridotto ad €. 530209,62 e l’ENEL deve essere condannata al pagamento di detta somma con interessi legali sull’importo ricapitalizzato di anno in anno dall’1.1.18 al saldo.

Quanto alla invalidità temporanea, essa non è determinabile, essendo stato del tutto casuale (a seguito di sopraggiunto malore), secondo quanto riferito in sede anamnestica dal P., il rilievo dell’oncopatia polmonare, allorquando, peraltro, poteva già ritenersi terminato il periodo di malattia (cfr prima CTU pag 34).

Tirreno Power deve altresì essere condannata a manlevare Enel S.p.a. in relazione a detta condanna.

Quanto alle compagnie convenute deve darsi atto che del contratto di assicurazione in atti, stipulato con Enel S.p.a., deve ritenersi parte Tirreno Power trattandosi di contratto che prevede diritti ed obblighi relativi alla azienda (centrale Enel) ceduta da Enel a questa.

Dalla polizza in vigore dal 31.12.97, ore 24.00 e fino al 30.6.00, ore 24.00, depositata da Tirreno Power,  deve evidenziarsi che la stessa assicura per i danni causati da Enel ai propri prestatori di lavoro (cfr preambolo ante art 1, nonché art 19). Invero però non sussiste alcun criterio di collegamento tra polizza e malattia professionale, posto che la stessa, come detto, è stata cagionata da una condotta antecedente il periodo coperto da assicurazione e si è verificato in un momento ben successivo. Invero la polizza (art 19) riferendosi ai danni cagionati, fa riferimento ad una condotta efficiente verificatasi nel periodo di copertura assicurativa.

Ne deriva il rigetto della domanda nei confronti delle società terze chiamate.

Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo tra istante ed Enel S.p.a. e tra istante ed Enel Produzione S.p.a.; spese compensate tra istante e  Tirreno Power S.p.a. posta l’assunzione del debito di Enel S.p.a. da parte della stessa; parimenti seguono la soccombenza tra le società assicuratrici costituite e Tirreno Power e tra Tirreno Power ed Enel S.p.a.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando, contrariis reiectis, così provvede:

1)                rigetta il ricorso verso Enel Produzione S.p.a.;

2)                condanna ENEL S.p.a. al pagamento in favore dell’istante di €.530209,62 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria su detto importo dall’1.1.18 ad oggi, oltre ulteriori interessi sull’importo così calcolato da oggi al saldo effettivo;

3)                Condanna la convenuta Tirreno Power a manlevare Enel S.p.a. dell’importo di cui al capo

2);

4)                Rigetta la domanda verso le terze chiamate;

5)                Condanna Enel S.p.a. al pagamento delle spese di giudizio dell’istante (oltre che di quelle di CTU liquidate come da separato decreto)  che si liquidano in €. 23.420,00, oltre rimborso spese forfettarie, IVA e CPA, con distrazione in favore del difensore costituito;

6)                Condanna l’istante al pagamento delle spese di giudizio di Enel Produzione S.p.a. che si liquidano in €. 14055,00 oltre rimborso spese forfettarie, IVA e CPA;

7)                Spese compensate tra istante e Tirreno Power;

8)                Condanna Tirreno Power al pagamento delle spese di giudizio di GENERALI ITALIA

S.p.A. e UNIPOL SAI Assicurazioni S.p.A. che si liquidano in €. 17808,00 oltre rimborso spese forfettarie, IVA e CPA;

9)                Condanna Tirreno Power al pagamento delle spese di giudizio di Allianz S.p.A. che si liquidano in €. 7270,00 oltre rimborso spese forfettarie, IVA e CPA;

10)            Condanna Tirreno Power al pagamento delle spese di giudizio di Enel S.p.A. che si liquidano in €. 23.420,00 oltre rimborso spese forfettarie, IVA e CPA. NAPOLI, lì 22.5.18.

IL GIUDICE

(Dott. Paolo Coppola)

Nel 1954 nasce la Cementir in area adiacente allo stabilimento Ilva con l’obiettivo di utilizzare come materia prima per la produzione del cemento un sottoprodotto delle lavorazioni siderurgiche: la loppa di altoforno

L’attività produttiva della Cementir, attualmente inattiva, si è sviluppata nell’area di Bagnoli,su una superficie di 63.000 mq. di cui circa 24.000 coperti e, in considerazione delle lavorazioni altamente nocive effettuate negli anni, con decreto legge n.274 del 1996 sono state disposte misure urgenti per il risanamento dei siti industriali dismessi nell’area di Bagnoli.

L’art.1 di detto decreto prevede il risanamento dei sedimi industriali interessati di società (Ilva, Cementir, Eternit, Federcosorzi) , sulla base del progetto denominato “Piano di recupero ambientale – Progetto delle operazioni tecniche di bonifica dei siti industriali dismessi.

Il ciclo produttivo del cemento all’interno dello stabilimento Cementir di Bagnoli può essere sommariamente sintetizzato nelle seguenti fasi:

 

-le materie prime (rocce calcaree e argilla) estratte da giacimenti naturali o costituite da loppe d’altoforno (come nel caso dello stabilimento di Napoli almeno fino al 1989), opportunamente dosate ed addizionate ad altri elementi, subivano un processo di macinazione dal quale si otteneva la “farina cruda”;

-mediante la cottura della “farina cruda”, che avveniva in appositi forni alimentati prevalentemente da combustibili fossili in cui si raggiungevano temperature fino a 1400-1500 °C, si produceva il Clinker, componente principale del cemento;

– il Clinker, una volta raffreddato, subiva un processo di macinazione e miscelazione con gesso ed altri additivi (es. loppe, ceneri volanti, calcari), diversi in funzione delle varie tipologie di cemento;

-il prodotto finale veniva stoccato ed eventualmente imballato in sacchi per poi essere trasportato al sito di destinazione.

 

Per ognuna della fasi descritte, era previsto l’impiego di diverse figure professionali operanti per l’esercizio e la manutenzione sia delle macchine direttamente utilizzate nel ciclo produttivo che di quelle a supporto dello stesso.

 

Com’è ormai ben noto dalla letteratura scientifica siffatti cicli produttivi erano caratterizzati da un massiccio impiego di materiali contenenti amianto (MCA) che, anche se non impiegati come materie prime del processo tecnologico (come invece avveniva per la produzione dei manufatti in cemento-amianto), rientravano in tale processo come materiali di supporto indispensabili al ciclo di lavorazione.

 

La sentenza della Corte d’Appello di Roma condanna la Cementir a risarcire gli eredi di un lavoratore della Cementir, che aveva contratto un mesotelioma pleurico a causa dell’inalazione di fibre di asbesto sentenza Corte d’Appello di Roma Mesotelioma Pleurico CEMENTIR

Corte Suprema di Cassazione – Sezione Lavoro – Sentenza n. 23041 del 22 agosto 2024

 

La Corte di Cassazione – nel chiarire da tempo che il divieto di cumulo dei trattamenti di disoccupazione con i trattamenti pensionistici a carico dell’assicurazione generale obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, introdotto dall’art. 6 comma 7 del citato d.l. n. 148 del 1993, si estende anche all’assegno ordinario di invalidità, in ragione della sua natura di trattamento pensionistico (cfr. Cass. 17/08/2023 n. 24751 e ivi le richiamate Cass. nn. 5544 e 8239 del 2010, 9808 del 2012 e 8634 del 2014) – ha rammentato che il regime della non cumulabilità di tali trattamenti è stato temperato dalla facoltà di opzione introdotta dall’art. 2 comma 5 del d.l. n. 299 del 1994 alla luce del quale “all’atto dell’iscrizione nelle liste di mobilità, i lavoratori che fruiscono dell’assegno o della pensione di invalidità devono optare tra tali trattamenti e quello di mobilità”. In quella sede si è rammentato che la norma sopra citata non prevede espressamente quali siano le conseguenze del mancato esercizio dell’opzione nel termine previsto per l’iscrizione nelle liste ma si è ritenuto di poterle ricavare dall’art. 1287 secondo comma c.c. il quale stabilisce in forma generale per tutte le obbligazioni alternative le conseguenze del mancato esercizio della facoltà di scelta del creditore “nel termine stabilito” prevedendo la decadenza dalla facoltà di scelta che passa al debitore. In quel contesto si è ritenuto che, sebbene non si possa avere nel caso dell’iscrizione alle liste di mobilità alcun passaggio della facoltà di scelta al debitore, trattandosi di obbligazioni pubbliche in cui il comportamento dell’ente previdenziale è interamente assoggettato alla volontà di legge, tuttavia l’opzione tra i due trattamenti non potrebbe essere esercitata in ogni tempo ma deve piuttosto intervenire all’atto dell’iscrizione nelle liste di mobilità a pena di decadenza.

Il diritto alla corresponsione dell’assegno sociale ex l. n. 335 del 1995, art. 3, comma 6, prevede come unico requisito lo stato di bisogno effettivo del titolare, desunto dalla condizione oggettiva dell’assenza di redditi o dell’insufficienza di quelli percepiti in misura inferiore al limite massimo stabilito dalla legge, senza che assuma rilevanza che lo stato di bisogno debba essere anche incolpevole.

E’ capitato sovente che l’INPS negasse al cittadino la prestazione assistenziale avendo in precedenza donato alla figlia i due immobili di cui era titolare, riservandosi su uno di essi il diritto di abitazione. Sosteneva l’Istituto che in questo caso il richiedente avesse creato la condizione di impossidenza, che  doveva considerarsi frutto di una sua scelta volontaria, come tale preclusiva dell’accesso alla provvidenza.

La Suprema Corte rammenta che il diritto alla corresponsione dell’assegno sociale prevede come unico requisito lo stato di bisogno effettivo del titolare, desunto dalla condizione oggettiva dell’assenza di redditi o dell’insufficienza di quelli percepiti in misura inferiore al limite massimo stabilito dalla legge, senza che assuma rilevanza che lo stato di bisogno debba essere anche incolpevole.

L’assegno sociale, difatti, rappresenta una prestazione di base avente natura assistenziale ed in quanto tale è volto ad assicurare i mezzi necessari per vivere, ai sensi dell’art. 38 cost., comma 1, alle persone anziane che hanno superato una prefissata soglia di età e che non dispongono di tutela previdenziale per fronteggiare l’evento della vecchiaia.

In tali casi, il relativo diritto si fonda sullo stato di bisogno accertato del titolare, che viene desunto, in base alla legge, dalla mancanza di redditi o dall’insufficienza di quelli percepiti al di sotto del limite massimo indicato dalla legge. L’assegno viene infatti corrisposto per intero o ad integrazione, a coloro che, compiuta l’età prevista, siano privi di reddito o godano di un reddito inferiore al limite fissato dalla legge – raddoppiato in ipotesi di coniugio ed adeguato nel tempo dal legislatore. Occorre evidenziare come la legge individui precisamente i redditi rilevanti ai fini del calcolo del requisito reddituale: i redditi personali e quelli coniugali di qualsiasi natura, inclusi gli assegni familiari, escludendo invece il TFR e le relative anticipazioni, le competenze arretrate soggette a tassazione separata, nonché il proprio assegno e il reddito della casa di abitazione, le pensioni liquidate secondo il sistema contributivo a carico di gestioni ed enti previdenziali pubblici e privati che gestiscono forme pensionistiche obbligatorie in misura corrispondente ad 1/3 della pensione stessa e comunque non oltre 1/3 dell’assegno sociale. Una volta individuati i redditi rilevanti è possibile determinare l’importo del rateo mensile fino a concorrenza dell’importo massimo indicato, mentre il superamento del limite di reddito determina la sospensione della prestazione la cui erogazione riprenderà quando i redditi torneranno al di sotto del limite massimo previsto per la sua attribuzione.

 

Il tumore alla faringe, comunemente chiamato anche semplicemente cancro della gola, è una neoplasia che ha tra le sue possibili cause: il tabacco, l’abuso di alcol, una dieta povera di frutta e verdura, infezioni da HPV. Inoltre tra le cause del cancro alla gola, rilevante è l’esposizione alle fibre di amianto e ad altri agenti cancerogeni.

La IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) ha confermato nella Monografia 100/c del 2012 che tra gli agenti eziologici del cancro alla faringe vi è l’amianto.

Infatti la stessa Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) include anche questa patologia tra le malattie asbesto correlate.

There is sufficient evidence in humans for the carcinogenicity of all forms of asbestos […]. Asbestos causes mesothelioma and cancer of the lung, larynx and ovary. Also positive associations have been observed between exposure to all forms of asbestos and cancer of the pharynx, stomach, and colorectum

(Volume 100C – IARC Monographs)

L’esposizione a sostanze cancerogene, come appunto l’amianto, può avvenire spesso per motivi professionali, ad esempio negli stabilimenti industriali.

Infatti, purtroppo, in passato, l’asbesto è stato diffusamente utilizzato per via delle sue caratteristiche tecniche. Venne principalmente usato per le coperture in Eternit e l’isolamento dei tetti, per costruire navi e treni, nell’edilizia (vernici, pavimenti, tegole) e nelle automobili.

Le polveri e fibre d’amianto sono altamente cancerogene e possono, quindi, provocare a livello del distretto faringeo una serie di patologie tumorali che coinvolgono le varie componenti della cavità faringea, tra cui il tumore alla lingua, cancro alle tonsille.

Il cancro alla gola nei lavoratori esposti ad asbesto, in seguito all’aggiornamento effettuato nel 2012 dalla IARC che ha riconosciuto l’asbesto come cancerogeno di Gruppo 2A (Cancerogeno Probabile) va quindi riconosciuto come malattia professionale e indennizzato con una rendita INAIL

Sentenza Tumore dell’orofaringe ed esposizione ad amianto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 26514 dell’11 ottobre 2024, ha sancito un principio fondamentale in merito ai diritti dei lavoratori che assistono familiari disabili, chiarendo che “il datore di lavoro non può stabilire in modo unilaterale le giornate in cui il lavoratore deve usufruire dei permessi previsti dalla legge 104 del 1992.                    Cassazione sentenza 26514 del 2024

Il Tumore del colon retto è una neoplasia ad eziologia multifattoriale, per la quale si riconoscono fattori di rischio ambientali, comportamentali (fumo, scarsa attività fisica, obesità), dietetici (elevato consumo di carni rosse e alcol e/o scarso consumo di prodotti freschi quali frutta e verdura), la presenza di altre patologie predisponenti (diabete, sindrome metabolica) che sono comuni ai fattori di rischio per i tumori del colon , le malattie infiammatorie croniche intestinali ( Morbo di Crohn, Rettocolite ulcerosa, Poliposi ) e la familiarità di primo grado per neoplasie colon-rettali.

Una recente metanalisi ha evidenziato che la radioterapia sulla pelvi, indipendentemente dal tipo di neoplasia irradiata, è responsabile di un aumentato rischio di sviluppare un tumore al retto.

Circa la correlazione tra Amianto e Tumore del colon-retto vanno fatte alcune considerazioni. Si consideri che nell’ultima monografia IARC Volume C100– Arsenico, Metalli, Fibre e Polveri – una Review dei Carcinogeni Umani – che comprende tutti gli agenti classificati precedentemente come cancerogeni per l’uomo – si sono esaminati i dati di 41 coorti occupazionali e 13 studi caso-controllo che riportavano prove sull’associazione tra amianto e cancro del colon-retto.

Un’associazione tra l’esposizione professionale all’amianto ed il cancro del colon-retto è stata segnalata per la prima volta nel 1964 da Selikoff et al. in una coorte di 632 lavoratori a New York e nel New Jersey. Seidman et al (1986) riscontrarono una elevata mortalità da cancro di colon-retto in una popolazione di 820 maschi lavoratori in fabbrica in USA esposti all’amianto amosite (Rapporto Standardizzato di mortalità – SMR- 2.77). Essi notarono che il cancro del colon-retto in lavoratori esposti all’asbesto era una malattia a lunga latenza: in uno studio di coorte olandese (n = 58.279 uomini, di età compresa tra 55 e 69 anni al basale), con esposizione lavorativa all’amianto dopo 17,3 anni di follow-up, erano disponibili per l’analisi 187 casi di cancro esofageo, 486 gastrico e 1.724 colorettale. I modelli aggiustati per età e storia familiare di cancro hanno mostrato che l’esposizione principalmente prolungata ad alti livelli di amianto era associata in modo statisticamente significativo al rischio di adenocarcinoma esofageo, cancro del colon totale e distale e cancro del retto. In questo studio sono state valutate le differenze di rischio tra esposizione relativamente bassa ed elevata, il rischio associato ai sottotipi di cancro, l’influenza di potenziali fattori confondenti e l’interazione tra amianto e fumo in relazione al rischio di cancro.

Per nessuno dei tumori studiati è stata osservata alcuna interazione additiva o moltiplicativa statisticamente significativa tra amianto e fumo (Esposizione professionale all’amianto e rischio di cancro esofageo, gastrico e del colon-retto nello studio prospettico di coorte olandese – Epub 2014).

Il Consensus Report Asbestos, Asbestosis and Cancer: Helsinki Criteria for Diagnosis and Attribution, aggiornato nel febbraio 2014 ha considerato l’evidenza per attribuire all’esposizione ad amianto un tumore della laringe, tumore dell’ovaio, tumore del colon retto e tumore dello stomaco. Negli Helsinki Criteria del 1997 veniva indicato come valore soglia per l’attribuzione di causalità di una malattia in soggetti esposti un rischio relativo di 2. Il Consensus 2014 aggiornato raccomanda che la soglia del rischio relativo non debba essere superiore a 2, ma possa essere stabilita a livelli inferiori.

Il rischio relativo (RR) è una misura della forza dell’associazione tra due fenomeni; nel nostro caso, tra esposizione e malattia. Esso esprime l’entità del rischio nei soggetti esposti rispetto a quelli non esposti. Ad es. RR=1 indica un rischio negli esposti pari a quello della popolazione generale; RR=1,5 indica un rischio aumentato del 50%; RR=2 indica un rischio doppio rispetto alla popolazione generale.

Circa i livelli di esposizione: nei Criteri di Helsinki, per il tumore polmonare sono stati stabiliti dei valori soglia di esposizione alle fibre di asbesto, identificati in 25fibre/ml/anni, ed in assenza di dati quantitativi di esposizione, quest’ultimo requisito può essere ritenuto soddisfatto qualora sia presente una storia occupazionale di almeno 1 anno di esposizione elevata (ad es. produzione di manufatti in amianto, spruzzatura di amianto, coibentazione) o 5–10 anni di esposizione moderata (ad es. costruzione , manutenzione , ristrutturazione di manufatti contenenti amianto).

Per le altre neoplasie asbesto-correlate non è stato identificato un valore soglia di esposizione, per cui il documento di Consenso ha determinato la relazione tra il Rischio Relativo di ciascuna nuova entità  tumorale e il Rischio Relativo del tumore del polmone, utilizzando i risultati degli studi di coorte che hanno valutato il Rischio Relativo per entrambi.

Una più recente metanalisi pubblicata ad ottobre 2019 (Epub 2019), è stata eseguita per valutare quantitativamente l’associazione tra esposizione all’amianto e cancro del colon-retto: si è riscontrato un aumento significativo del rischio di mortalità per cancro del colon-retto tra i lavoratori esposti all’amianto a livello professionale (Rapporto Standardizzato di Mortalità- SRM- complessivo aggregato di 1,16 (IC 95%: da 1,05a 1,29). L’SMR aggregato per il cancro del colon-retto era elevato negli studi in cui era elevato anche il rischio di cancro ai polmoni associato all’amianto (1,43; IC al 95%: da 1,30 a 1,56). Ciò implica che il rischio di mortalità per cancro del colon-retto aumenta con l’aumentare del livello di esposizione all’amianto.

Il Consensus 2014 ha determinato la relazione tra il rischio relativo di ciascuna nuova entità tumorale e il rischio relativo del tumore del polmone; circa il tumore del colon retto e dello stomaco ha concluso che attualmente non possa essere considerato con certezza una patologia causata dall’amianto.

Anche la IARC- International Agency for Research on Cancer – si esprime, pertanto, con debole evidenza affermando che il tumore del colon retto non può, allo stato attuale, essere considerato con certezza conseguente all’esposizione all’asbesto, sebbene, rielaborando i dati e confrontando i Rapporti Standardizzati di Mortalità – SMR – per cancro al polmone con gli SMR per il cancro dello stomaco e del colon-retto abbia trovato un’associazione positiva e statisticamente significativa.

Il tumore del colon retto è inserito nella Lista II – Gruppo 6- Tumori Professionali – codice identificativo II.6.03 – C18-C20, della Tabella delle Malattie Professionali ( Il Decreto interministeriale 10 ottobre 2023 ha approvato la Revisione delle tabelle delle malattie professionali nell’industria e nell’agricoltura, di cui agli articoli 3 e 211 del Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n.1124, che sostituiscono quelle precedentemente approvate con decreto interministeriale 9 aprile 2008). La Lista II comprende le malattie causate dall’asbesto la cui origine lavorativa è di limitata probabilità e per le quali per riconoscerne il nesso causale è necessario dimostrare l’esposizione all’agente.

La correlazione tra asbesto e tumore del colon è stata ampiamente studiata in letteratura: a) monografia IARC 2012 (Asbestos. Actinolite, amosite, anthophyllite, chrysotile, crocidolite, tremolite. IARC Monogr Evaluation Carcinog Risk Chem Man, Vol. 100C) in cui si “fa riferimento specifico all’aumentata incidenza di tumore del grosso intestino ed in generale dei tumori gastrointestinali tra coloro che sono stati esposti professionalmente a polveri e fibre di amianto”; b) (Carcinoma of the colon in asbestosexposed workers: analysis of asbestos content in colon tissue), “hanno premesso che precedenti lavori scientifici avevano consentito di appurare una più alta incidenza di decessi per tumore al colon tra coloro che erano stati esposti ad amianto”; c) le conclusioni del Gruppo di Lavoro di esperti, per cui “sussiste “una associazione positiva tra esposizione ad amianto e cancro del colon retto, basata su risultati abbastanza consistenti di studi di coorte occupazionali, oltre all’evidenza di relazioni positive esposizione-risposta tra esposizione cumulativa ad amianto e cancro del colon retto riportata costantemente nei più dettagliati studi di coorte”; d) le meta analisi ( & 1988; Homa et al., 1994; IOM, 2006; Gamble, 2008); d) la direttiva 2009/148/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del “sulla protezione dei lavoratori contro i rischi connessi con un’esposizione all’amianto durante il lavoro”, in cui all’allegato 1 “Raccomandazioni pratiche per l’accertamento clinico dei lavoratori, di cui all’articolo 18, paragrafo 2, secondo comma” si legge: “In base alle conoscenze di cui si dispone attualmente, l’esposizione alle fibre libere di amianto può provocare le seguenti affezioni: asbestosi, mesotelioma, cancro del polmone, cancro gastrointestinale“; e) il Piano Nazionale Amianto nel quale il Governo italiano ha previsto che “prioritariamente vanno indagate le patologie correlate ad esposizione ad amianto, così come elencate nella monografia n. 100 della IARC e classificate nei gruppi I e II: tumore del polmone, della laringe, dell’ovaio, del colon retto, dell’esofago, dello stomaco” e un successivo studio prospettico di popolazione esposta in modo prolungato ad amianto che “ha dimostrato una più alta incidenza dei casi di cancro al colon, totale e distale, e del cancro rettale (Offermans NSM e collaboratori (Occupational asbestos exposure and risk of esophageal, gastric and colorectal cancer in the prospective Netherlands, Cohort Study (Int. J. Cancer: 00, 00–00 (2014) VC 2014 UICC).

 

Fatte queste premesse, si rileva che nel nostro ordinamento il nesso causale è ispirato al principio di equivalenza delle cause, per cui occorre tenere conto di qualsiasi fattore, anche indiretto, remoto o di minore spessore, sul piano eziologico che abbia concretamente cooperato a creare una situazione tale da favorire un’azione dannosa. La nostra giurisprudenza ha rifiutato un approccio rigidamente deterministico al tema causale ed ha ribadito che non è indispensabile che si raggiunga sempre la certezza assoluta.

Per cui anche se è modesta l’efficacia del fattore professionale non si debba escludere il principio di equivalenza causale.

A tal proposito la S.C., con sentenza n.10430/2017 (fattispecie analoga al presente giudizio: malattia professionale (patologia neoplastica al colon), a causa dell’esposizione a sostanze nocive (in particolare amianto) ha affermato quanto segue:

Va altresì ricordato che il nostro ordinamento in materia di nesso casuale (artt. 40 e 41 c.p.) è ispirato al principio di equivalenza delle cause; per cui, al fine di ricostruire il nesso di causa, occorre tener conto di qualsiasi fattore, anche indiretto, remoto o di minore spessore, sul piano eziologico, che abbia concretamente cooperato a creare nel soggetto una situazione tale da favorire comunque l’azione dannosa di altri fattori o ad aggravarne gli effetti, senza che possa riconoscersi rilevanza causale esclusiva soltanto ad uno dei fattori patologici che abbiano operato nella serie causale. Sicché solo qualora possa ritenersi con certezza che l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa sia stato di per sé sufficiente a produrre la infermità deve escludersi l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge (Cass. 26 marzo 2015 n. 6105; Cass. 11 novembre 2014 n. 23990); mentre per contro va negato che la modesta efficacia del fattore professionale sia sufficiente ad escludere l’operatività del principio di equivalenza causale (Cass. 12 ottobre 1987 n. 7551, Cass. 8 ottobre 2007 n. 21021).

Nella citata sentenza n. 10430/2017 (in una causa intentata dagli eredi del lavoratore nei confronti dell’Inail), la Cassazione si è occupata di un tumore al colon (malattia multifattoriale non tabellata) riconoscendo l’esistenza del nesso causale con l’esposizione ad amianto. Ha ricordato anzitutto che, per risalente e consolidata interpretazione anche costituzionale (Corte Cost. 206/74), ai fini dell’operatività della tutela assicurativa è sufficiente l’identificazione di un rischio ambientale (cfr. Cass. SU 13025/2006; 15865/2003, 6602/2005, 3227/2011), ossia che il lavoratore abbia contratto la malattia di cui si discute in virtù di una noxa comunque presente nell’ambiente di lavoro; non è mai necessario che il lavoratore sia specificatamente addetto a un’attività pericolosa comportante l’utilizzo di sostanze nocive. Ha poi ribadito che la regola fondante della causalità nel nostro ordinamento è quella di equivalenza delle condizioni e del concorso delle cause (41 c.p.) per cui non è necessario che si individui un fattore causale esclusivo di natura professionale per poter affermare il nesso. Ed è proprio questo il chiarimento centrale intervenuto per le malattie multifattoriali.

Per poter ricostruire il legame causale occorre tener conto di qualsiasi fattore professionale (anche indiretto, anche remoto o di minore spessore) che abbia cooperato alla produzione dell’evento nel senso che abbia contribuito in concreto a creare nel soggetto una situazione tale da favorire l’azione dannosa di fattori diversi o ad aggravarne gli effetti.

Ovviamente – poiché si discorre dell’intervento di una molteplicità di fattori causali concorrenti – la sussistenza della relazione causale non può essere affermata sulla base della personale valutazione del giudice e nemmeno di un Ctu, ma deve essere supportata da un giudizio di affidabilità della stessa comunità scientifica e dalla corretta valutazione delle circostanze del caso concreto.

E necessita quindi di una concreta e specifica dimostrazione, quanto meno in via di alta probabilità logica.

Attenzione, questa affidabilità logica (badate non puramente scientifica, statistica epidemiologica) si può ottenere – e allora il modello di accertamento del nesso di causa resisterà al vaglio del controllo di legittimità che si opera in Cassazione – quando il giudizio sul nesso causale è stato correttamente fondato su un duplice livello di accertamento: dell’identificazione legge causale di copertura (scientifica, generale, epidemiologica, statistica) e del confronto con le circostanze individualizzanti del caso concreto, allo scopo di escludere l’intervento di fattori alternativi.

In questi casi, la eziopatogenesi di una malattia può risalire, in tesi, a diversi fattori causali (ereditari, alimentari, ambientali, occupazionali) come accade oramai in quasi tutte le malattie; ma comunque il nesso causale con l’attività professionale può essere lo stesso identificato, anche dinanzi all’eventuale intreccio dei fattori causali, quando essi sono fattori tutti concorrenti secondo un giudizio di alta probabilità logica. Il Ctu (e il Giudice,poi) devono solo procedere agli accertamenti del caso rispettando i criteri indicati dalla giurisprudenza (Cass. SU penali 30328/2002 e Cass. SU civili 581/2008).

In particolare nella notissima sentenza Franzese che ha rifiutato un approccio rigidamente deterministico (o statistico) al tema causale (non è indispensabile che si raggiunga sempre la certezza assoluta, una connessione immancabile, tra i due termini) ammettendo una relazione di tipo probabilistico. Questa probabilità logica si raggiunge appunto procedendo con l’indagine causale sui due livelli diversi: confrontando le informazioni rilevanti sul piano della causalità generale (la c.d. legge scientifica o di copertura) con le specifiche emergenze relative al caso individuale, perché si possa restringere lo spettro delle possibili cause alternative.

Ottenute le informazioni rilevanti sui due piani (generale-individuale), si passa infine alla prova di resistenza attraverso l’impiego del c.d. giudizio controfattuale: nel caso dell’illecito a condotta attiva si elimina mentalmente la condotta incriminata, e nel caso del reato omissivo si ipotizza invece come avvenuta la condotta doverosa omessa; e si verifica così se l’evento venga meno oppure no, e in caso positivo si può concludere per l’esistenza del nesso di causalità.

Nel caso del tumore al colon su cui aveva giudicato la sentenza della Cassazione n. 10430/2017, era proprio quello che risultava aver effettuato la Ctu posta a fondamento della decisione di merito.  La quale aveva anzitutto dato atto dell’esistenza di una nutrita letteratura medica che riconosce il nesso causale tra l’esposizione ad amianto e il tumore al colo, citando studi e DM che prevedono lo stesso rapporto causale come possibile (attualmente di limitata probabilità).

La Ctu aveva poi tenuto conto della sensibilità dello specifico soggetto; e inoltre degli elementi topografico, cronologico, di efficienza lesiva e di esclusione di altra causa. Dinanzi a un ragionamento così articolato la sentenza di merito veniva confermata dalla Suprema Corte in quanto coerente con i princìpi di equivalenza delle condizioni e di alta probabilità logica rispetto al singolo caso concreto.

Identico orientamento giurisprudenziale si rinviene anche nelle successive Sentenze della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n° 3975 del 19 febbraio 2018 e n° 7313 del 14 marzo 2019- che si deposita)

Pertanto, considerando l’assenza di fattori genetici e/o personali di rischio autonomi (non emersi né rilevati da controparte o dal CTU), la bozza di consulenza omette del tutto di considerare il ruolo rilevante della esposizione alle fibre di amianto nell’ambito di un concorso sinergico di cause efficienti.

E’ indubitabile che il tumore al colon è una malattia a genesi multifattoriale. Questo vuol significare che possono essere diverse le cause del tumore al colon e che spesso possono agire sinergicamente fra loro.

Tra i fattori di rischio per insorgenza di tumore al colon ci sono familiarità, ereditarietà, malattie infiammatorie intestinali come infiammazione cronica dell’intestino crasso, colite ulcerosa e morbo di Crohn, presenza di polipi adenomatosi lungo il tratto colon-retto, età, stile di vita poco sano (dieta errata, obesità, eccessivo consumo di alcol, fumo di sigaretta e sedentarietà) -circostanze ma anche agenti eziologici quali l’amianto e gli idrocarburi policiclici aromatici.

Quest’ultimo aspetto è stato rappresentato anche dallo IARC (Agenzia Internazionale di ricerca sul Cancro) facente capo all’OMS che nell’ultima monografia relativa ai protocolli di classificazione degli agenti cancerogeni per l’uomo intravede la probabilità che l’amianto possa essere qualificato come fattore di rischio tumore del colon.

A un lavoratore dell’Italsider con le mansioni di riparatore meccanico, in  data 25/5/2018, a seguito di TAC del Torace, veniva diagnosticato un “un diffuso ispessimento dell’interstizio peribroncovascolare con evidenza di bolla di enfisema. La TC del 25.6.2019 evidenziava “un ispessimento parenchimale di aspetto simil-nodulare. incremento della trama interstiziale.

Si sottoponeva in data 28/10/2019 ad un intervento chirurgico di resezione atipica Vas, successivamente, in data 15/3/2021 ad intervento in lobectomia superiore destra con diagnosi di adenocarcinoma polmonare infiltrante scarsamente differenziato (G3).

Il doloroso itinerario (che si provava documentalmente) gli provocava un malessere profondo caratterizzato da sensazioni di abbandono, disperazione, inappagamento dei bisogni primari, per cui lo stesso cominciava a prendere in considerazione l’idea di porre fine alla propria esistenza. Difatti, in data 13/5/2022, decedeva a seguito di caduta volontaria dal secondo piano della sua abitazione.

Nell’ultimo anno di conclamata malattia il lavoratore, oltre a dolori lancinanti durante la respirazione, presentava coaguli di sangue, difficoltà del linguaggio, difficoltà respiratorie, fiato corto, inappetenza , perdita di peso non voluta e raucedine. Praticava diversi cicli di Chemioterapia e Terapia per DOLORE CRONICO in ultimo solo terapia ANTALGICA.

L’avv. Gentile provava che il lavoratore trascorreva a letto più del 50% del suo tempo ed era completamente consapevole della sua situazione di malattia e della sua prognosi infausta: Consapevolezza di malattia completa. Coscienza della terminalità completa”.

Sulla scorta di tanto si sosteneva che le conseguenze dovute all’insorgenza della patologia nefasta, sicuramente di natura professionale e causata dalla violazione di norme di sicurezza della datrice di lavoro, la conoscenza della prognosi quoad vitam e quoad valetudinem che lasciavano inerte il soggetto sotto il profilo delle sofferenze e dell’immancabile ripercussione su ogni idea di sua proiezione futura, cui è votata l’esistenza di ogni individuo, avevano sicuramente contribuito, come movente ultimo, al compimento del gesto estremo posto in essere dal lavoratore.

Si sosteneva che, nel caso di specie, sussisteva un valido nesso causale, ai sensi degli art. 40 e 41 c.p., tra la condotta del terzo e l’azione suicidaria.

Ed invero, secondo l’insegnamento della Suprema Corte di Cassazione, il danno morale per perdita di una persona cara può spettare ai congiunti della vittima non solo quanto questa perda la vita direttamente in conseguenza dell’altrui atto illecito, ma anche quando perda la vita in conseguenza di atti autolesivi, a condizione che il suicidio trovi il proprio antecedente causale nel fatto illecito del terzo. Tale nesso, infatti, non necessariamente è escluso dalla volontarietà del suicidio. Quest’ultimo infatti non è un fatto idoneo ad interrompere il nesso di causalità tutte le volte che l’illecito ha determinato nel soggetto leso dei gravi processi di infermità psichica, concretizzati in psicosi depressive o altre forme di alterazione dell’umore e del sistema nervoso e di autocontrollo (Cass. sez. lav. 2037/2000; Cass. n.969/1996; Trib. Alessandria 9/10/1998).

Si riportava uno studio su rischio di suicidio e cancro (https://www. fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/oncologia/spezzare-i-tabu-parliamo-del-dolore-dei-malati-di-tumore-e-di-suicidio) della Fondazione Umberto Veronesi ove si afferma :

 come emerso da una recente ricerca pubblicata online su Nature Medicine a fine marzo, nonostante i progressi nella cura del cancro degli ultimi decenni, i pazienti oncologici hanno un rischio più elevato di suicidio rispetto alla popolazione generale. Lo studio, condotto da Michael Heinrich e colleghi dell’Università di Ratisbona, ha messo insieme articoli rilevanti sull’argomento pubblicati su database scientifici come EMBASE, MEDLINE, PsycINFO, Web of Science, CINAHL e Google Scholar fino a febbraio 2021. È stata eseguita una revisione sistematica che includeva 62 studi e 46.952.813 pazienti. Per evitare la sovrapposizione del campione di pazienti, la meta-analisi è stata eseguita su 28 studi, che hanno coinvolto in totale 22.407.690 pazienti malati di tumore. Da ciò è emerso che la mortalità per suicidio era significativamente aumentata rispetto alla popolazione generale. Il rischio era fortemente correlato alla prognosi del cancro, allo stadio del tumore, al tempo trascorso dalla diagnosi e alla regione geografica. Ma al di là dei dati statistici che, vista la delicatezza della tematica, non ha senso elencare nel dettaglio, il dato da tenere presente è proprio l’aumento dei suicidi nei pazienti oncologici.  Il commento di Carlo Alfredo Clerici, professore associato di Psicologia clinica presso il Dipartimento Oncologia e emato-oncologia dell’Università Statale di Milano:. «Che la malattia sia da sempre una causa di un rischio aumentato di suicidio – spiega Clerici – è noto da tempo. I dati ISTAT, che sono stati raccolti nel corso degli anni nel nostro paese, non lasciano dubbi a questo riguardo. Ovviamente poi il suicidio è un fenomeno molto complesso e la malattia, seppur costituisca una riconosciuta aggravante, non è chiaramente l’unica causa. Una diagnosi di tumore e la convivenza con il cancro possono  innescare infatti meccanismi psicologici diversi che vanno dalla depressione alla percezione di una profonda solitudine esistenziale, dalla sofferenza fisica alla fragilità psicologica che si innesca su un dolore del corpo, talvolta, mal gestito».

 

Il Giudice veniva adito per conseguire il riconoscimento della rendita ai superstiti in favore del coniuge superstite, previo accertamento dell’esistenza di un nesso causale tra la malattia neoplastica di origine lavorativa e suicidio.

La CTU disposta dal Magistrato , che si allega, ha accertato: La consapevolezza del fallimento della chemioterapia per la comparsa di nuove lesioni ossee e pertanto la consapevolezza della progressione della malattia con la progressiva perdita delle proprie autonomie ha giocato il ruolo determinante nella decisione del sig XXXXX di porre fine alla sua vita. Pertanto è evidente che la sua vita fatta di sedute quindicinali di chemioterapia aggressiva, di scarso controllo della componente dolorosa per la comparsa di nuove lesioni ossee, e della consapevolezza della progressione della malattia siano stati fattori determinanti nella scelta anticonservativa messa in atto il 13/05/2022. Evidente quindi il nesso causale tra il suicidio ed il carcinoma polmonare metastatizzato. Così come è noto il rapporto tra carcinoma polmonare ed esposizione all’amianto, entrambi riconosciuti dall’INAIL al sig XXXXCTU Suicidio quale malattia professionale

CTU disturbo dell’adattamento quale malattia professionale
Con la sentenza n. 15957 del 07.06.2024, la Cassazione afferma che la presenza di un clima lavorativo che crea stress è un fatto ingiusto che, anche in assenza di una condotta mobbizzante, fa sorgere in capo al dipendente un diritto al risarcimento.
In più occasione la S.C. ha avuto modo di affermare che “nell’ambito del sistema del T.U. in materia di infortuni sul lavoro, sono indennizzabili tutte le malattie di natura fisica o psichica la cui origine sia riconducibile al rischio del lavoro, sia che riguardi la lavorazione, sia che riguardi l’organizzazione del lavoro e le modalità della sua esplicazione; dovendosi ritenere incongrua una qualsiasi distinzione in tal senso, posto che il lavoro coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni, sottoponendola a rischi rilevanti sia per la sfera fisica che psichica (come peraltro prevede oggi a fini preventivi l’art. 28, comma 1, T.U. 81/2008.
Si allega un’interessante consulenza tecnica d’ufficio, espletata in un giudizio patrocinato dall’avv. Francesco Gentile, che ha riconosciuto il nesso di causalità tra il disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso e gli eventi connessi all’attività lavorativa.